Maria ha 47 anni, lavorava come cassiera in una cooperativa piemontese, ma qualche mese fa ha dovuto lasciare il posto: le era diventato ormai impossibile conciliare i turni con la gestione della famiglia. «Avevo un contratto stagionale di 24 ore settimanali, anche se poi finivo col farne 40, perché mi veniva chiesto di prolungare il turno con la promessa, più o meno esplicita, di un’assunzione a tempo indeterminato» racconta. «La turnazione era rigida, non c’era possibilità di cambi con le colleghe neppure in caso di necessità, per esempio quando mio figlio era malato. Mio marito lavorava fuori regione, quindi ho dovuto chiedere aiuto a una zia che si è trasferita temporaneamente dalla Lombardia a casa nostra. Senza di lei non ce l’avrei fatta, ma quando è dovuta tornare a casa sua io ho non ho avuto altra scelta che lasciare il lavoro».
Maria non è l’unica madre costretta a rinunciare al proprio impiego perché impossibile da conciliare con l’altro suo lavoro h24: la cura della famiglia. Lo dicono i numeri: il 77% dei neogenitori rimasti disoccupati nel 2021 è donna. Maria, però, non si è dimessa subito dopo la maternità, lo ha fatto quando suo figlio aveva già 10 anni. E per “colpa” dei turni di lavoro.
Le difficoltà delle lavoratrici a turni
Ad accendere i riflettori sulle difficoltà (ancora maggiori) delle lavoratrici a turni – dalle cassiere alle bariste, dalle infermiere alle operaie – è stato il recente caso della Lis Group, società che opera nel settore della logistica. Le dipendenti hanno protestato contro la decisione dell’azienda di cancellare il turno centrale dalle 8.30 alle 15.30, a favore di due sole fasce (5.30-13.30 e 14.30-22.30), incompatibili con gli orari di scuola dei figli della maggior parte di loro. «Molte non possono contare su una rete familiare né permettersi di pagare una baby sitter» spiega l’avvocata Loredana Piscitelli, che le ha assistite nella causa in tribunale di Bologna.
I turni rientrano in quelle prassi aziendali in apparenza NEUTRE che in realtà discriminano i GENITORI. Le leggi italiane ed europee le vietano.
Qui la giudice Chiara Zompi ha dato ragione alle lavoratrici, individuando un “fattore di rischio” nella maternità e genitorialità. Di cosa si tratta? «Ci sono molti comportamenti apparentemente neutri, ma che in realtà possono mettere in una condizione di particolare svantaggio i lavoratori di un determinato sesso, in questo caso le donne con figli. L’articolo 25 del Codice delle pari opportunità del 2006 vieta queste condotte. Con la riforma del 2021, inoltre, è stata recepita una direttiva comunitaria che include espressamente tra i fattori di discriminazione la gravidanza, la maternità e la paternità, anche adottive» chiarisce l’avvocata Marisa Marraffino.
Quali diritti hanno le mamme lavoratrici
Quindi, quali diritti hanno le mamme lavoratrici? Prima abbiamo accennato al fatto che, tra i neogenitori rimasti senza lavoro l’anno scorso, quasi 8 su 10 sono donne. E per il 97% di loro le dimissioni o il licenziamento sono legate alle «difficoltà di conciliazione tra servizi di cura e organizzazione del lavoro» spiega l’Ispettorato nazionale del lavoro. Conferma l’avvocata Marisa Marraffino: «Nonostante i numerosi passi avanti, oggi ci sono ancora molti ostacoli perché la gestione dei figli e della famiglia rimane una prerogativa quasi esclusivamente femminile.
Una mamma lavoratrice può chiedere percorsi agevolati al datore di lavoro e quest’ultimo, quando è possibile, ha l’obbligo di accogliere le richieste motivate dalla necessità di accudimento. Certo, non sempre accade: alcuni datori di lavoro arrivano a sospendere o licenziare i dipendenti impossibilitati a seguire, per esempio, gli orari imposti dall’azienda, che però non tengono conto delle necessità parentali. Ma si può fare ricorso e finora i giudici hanno quasi sempre ritenuto illegittimi i provvedimenti disciplinari».
Il benessere dei figli viene sempre messo al primo posto
Anche perché il benessere dei figli viene sempre messo al primo posto, come nella sentenza sul caso della Lis Group. Dove la giudice sottolinea «i gravi disagi e le alterazioni dei ritmi e delle abitudini di vita, potenzialmente forieri di conseguenze sul benessere psico-fisico dei figli». Come spiega l’avvocata Marraffino, «è un’applicazione corretta del diritto fondamentale dei figli alla genitorialità, tutelato anche dalla Costituzione. I bambini, soprattutto i più piccoli, hanno bisogno di una vita regolare e di ritmi che siano il più possibile rassicuranti. Quindi l’azienda deve mettere in campo ogni azione che possa agevolare i diritti dei genitori e dei minori. Occorrerebbe più flessibilità organizzativa e in questa direzione vanno anche le più recenti norme sullo smart working o il part time. C’è ancora molto da fare sul fronte culturale, però tanti cambiamenti sono già in atto».
Il part time per evitare i turni di notte
Lo dimostra la storia di Claudia. 50 anni, infermiera in una Rsa in Liguria e madre di due figli, nel 2015 ha dovuto chiedere il part time perché non poteva fare turni di notte: i bambini avevano 5 e 7 anni e suo marito era spesso via per lavoro. L’azienda, stavolta, le è venuta incontro «e mi è cambiata la vita: li ho potuti seguire e anche oggi che sono più grandi possono contare su una certa elasticità, per esempio cambiando orario con altri colleghi senza dover chiedere l’autorizzazione ai responsabili del personale» racconta. «Certo, il part time ha significato un taglio dello stipendio e non tutte possono permetterselo».
È il caso di Sara, 40 anni, impiegata in una ditta di prodotti chimici in Emilia Romagna: «Sono madre single e i miei genitori vivono in Trentino. Terminata la maternità, mi sono ritrovata in difficoltà a conciliare l’orario del nido, rigido anche per motivi legati alla pandemia, e quello del lavoro. Ho chiesto un adattamento del contratto, ma mi è stato negato. Ho provato a rivolgermi a un’avvocata, che mi però mi ha indirizzata alla Consigliera di parità regionale: non sapevo neppure chi fosse e cosa facesse, ma grazie a lei sono riuscita a trovare un accordo con l’azienda».
Consigliera di parità: una figura ancora poco conosciuta
Ad aiutare Sara è stata Sonia Alvisi, Consigliera di Parità in Emilia Romagna, Regione all’avanguardia in questo campo. È la prima e unica in Italia ad aver istituito, da gennaio, un fondo di 20.000 euro per le spese legali per le donne che devono sostenere cause di lavoro per discriminazione. E qui è appena terminato il secondo corso di alta formazione in materia di discriminazioni riservato ad avvocati che, una volta superato un esame, entrano a far parte di una lista regionale e nazionale di esperti che collaborano con la Consigliera di parità nei casi in cui siano necessarie le vie legali. «La nostra figura è ancora poco conosciuta, ma può essere fondamentale: abbiamo il compito di promuovere parità e uguaglianza nel mondo di lavoro e lo facciamo attraverso la conciliazione con le aziende, nei casi di discriminazione sia collettiva sia individuale» dice Sonia Alvisi. «Laddove la mediazione non va a buon fine possiamo rappresentare le lavoratrici in tribunale. Per farlo, però, occorre avvalersi di un avvocato, che ha un costo: da qui la necessità di un fondo per le spese».
Sono una mamma single e lavoro in fabbrica. Ho chiesto un adattamento del CONTRATTO per andare a prendere mio figlio al NIDO ma all’inizio mi è stata negata. Ho trovato un ACCORDO grazie alla mediazione della Consigliera di parità. Nemmeno sapevo esistesse…
Sara, per fortuna, non è arrivata in tribunale, ha trovato una soluzione soddisfacente per tutti: «Lavoro un’ora in meno. Certo, lo stipendio è ridotto, ma meno di quanto lo sarebbe stato se fossi passata al part time: non avrei potuto mantenere me e mio figlio. Oggi esco alle 16 invece che alle 17 e faccio in tempo ad andare a prenderlo all’asilo».
A chi chiedere aiuto: la Consigliera di Parità
Non molti la conoscono, ma la Consigliera di Parità esiste da 15 anni. È una figura nata con l’obiettivo di promuovere e controllare l’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e di non discriminazione tra uomini e donne nel mondo del lavoro, secondo quanto previsto dal Decreto legislativo 198 del 2006.
Oltre a quella nazionale, ci sono Consigliere di Parità regionali e provinciali. Ha competenze ed esperienze in materia di lavoro femminile e norme sulla parità, è a tutti gli effetti un pubblico ufficiale e ha l’obbligo di segnalare eventuali reati all’autorità giudiziaria. La Consigliera nazionale di Parità lavora presso il ministero del Lavoro, mentre quelle regionali e provinciali si trovano presso le sedi dei rispettivi enti.