Ne ha percorsa di strada da quando, bambina, giocava con l’Allegro chirurgo fantasticando sul suo futuro in una vera sala operatoria. «Nella mia famiglia non c’era nessun medico eppure è sempre stato solo quello, il mio desiderio» dice Tiziana Viora, 53 anni, torinese. Che nel frattempo s’è specializzata in chirurgia del pancreas e dallo scorso settembre è primario di Chirurgia generale all’ospedale Maria Vittoria del capoluogo piemontese: è tra le pochissime donne a ricoprire quest’incarico, fra i più importanti nella sanità.
Eppure le donne rappresentano il 41% dei medici italiani. Perché solo 7 direttrici in Chirurgia generale?
Perché questa carriera richiede dedizione e presenza costante. Un impegno spesso incompatibile con la maternità, in un Paese in cui si pensa ancora che la cura dei figli competa solo alla madre e non alla coppia.
Non è un problema di discriminazione nell’ambiente sanitario?
Io non l’ho mai riscontrato. Certo, quando ero giovane i pazienti mi si rivolgevano con “signorina” mentre il collega uomo era il “professore”. Ma è bastato acquisire esperienza e sicurezza per sentirmi chiamare finalmente “professoressa”. Inoltre, quello che è stato il mio direttore per tanti anni vedeva in me il suo delfino e mi ha sempre supportata, anche quando ho avuto i miei due figli: Francesco di 16 anni e Chiara, di 19, che oggi studia Medicina a Genova.
Lei come ha conciliato carriera e famiglia?
Oltre alla fortuna di avere un capo e dei colleghi ottimi, a casa ho stabilito un’organizzazione quasi militare, grazie ai nonni disponibili, a una tata insostituibile e a un marito presente, che per fortuna non è medico. Questo mi ha permesso, con serenità, di riprendere presto i turni di notte e nei weekend, perché in famiglia era tutto pianificato, persino il menu della settimana.
E alla fine, per il ruolo di primario, lei ha sbaragliato 7 uomini.
Così però sembro la vendicatrice del film Kill Bill! Io non ho mai ingaggiato lotte di genere, non amo le quote rosa e non mi pongo come una donna contro gli uomini. Sono un chirurgo in mezzo ad altri chirurghi, punto. Poi la battuta “ah, oggi hai la gonna corta” i colleghi maschi te la faranno sempre: basta riderci sopra e loro smettono.
Un bilancio dei suoi primi mesi da primario?
La struttura era da tempo senza direttore e aveva bisogno di una riorganizzazione totale, dagli ambulatori ai percorsi diagnostici. Ho valorizzato le professionalità dei miei 15 chirurghi e le specialità che saranno il fiore all’occhiello del reparto, come l’endocrinochirurgia e la laparoscopia. Ho aumentato la percentuale d’interventi e l’occupazione dei letti. Risultati molto positivi, che ora si tratta di mantenere.
L’aspetto più difficile del suo lavoro?
L’attività manageriale alla quale noi medici non siamo formati: riunioni, gestione di budget e del personale… Arrivo in ospedale alle 8 e a mezzanotte sto ancora inviando mail da casa per portarmi avanti.
A cosa ha rinunciato, per la carriera?
Al tempo per me, ai viaggi, allo sport, perché fuori dal lavoro mi dedico solo alla famiglia. Ma è una mia scelta: mi gratifico così.
Come dev’essere l’ospedale ideale, secondo lei?
Con meno gerarchie, una divisione delle carriere fra manager e medici. E un aiuto dai servizi sul territorio, che gioverebbe al rapporto con i pazienti.
In che senso?
Ho scelto chirurgia dell’addome perché il malato arriva con il mal di pancia ed esce che ha risolto il problema: l’interazione medico-paziente è molto stretta, con risultati subito tangibili. Ma questo rapporto diventa difficile quando c’è emergenza di posti letto: oggi tanti anziani vengono ricoverati anche se non è necessario, poiché sul territorio mancano strutture per la lungodegenza e l’assistenza domiciliare. Così, per aumentare i posti, gli ospedali tagliano investimenti importanti come la formazione dei medici e le nuove tecnologie. E la relazione con il paziente ne risente.
Da una ricerca americana risulta che le donne medico curano meglio degli uomini, perché più empatiche e rassicuranti. È d’accordo?
La propensione all’ascolto e alla mediazione sono qualità femminili, ma da studi in altri campi manageriali emerge che anche molti uomini le possiedono. Si tratta di individuarle e valorizzarle.
Sta entrando nei corsi universitari la “medicina di genere”, cioè il riconoscimento che donne e uomini hanno bisogni diversi per prevenzione, diagnosi e cura. Che ne pensa?
Mi sembra una speculazione. Non vedo perché una donna debba essere trattata in modo diverso rispetto a un uomo o a un bambino: io curo la persona con la patologia che porta, e sta alla mia sensibilità di medico capire le sue peculiarità.
Gli ospedali attenti alla salute delle donne
Gli ospedali italiani si rivelano sempre più attenti alla salute femminile, sebbene con una disparità fra Nord, Centro e Sud. Sono 306 quelli premiati a dicembre con i “bollini rosa” dell’Osservatorio Onda, che individua le strutture sanitarie più impegnate in percorsi diagnosticoterapeutici dedicati alle patologie femminili. Dieci anni fa erano solo 44. A guadagnarsi il riconoscimento sono oggi 173 ospedali del Nord, 64 del Centro e 69 del Sud. Le regioni più all’avanguardia risultano Lombardia (74 “bollini rosa”), Veneto (35) e Lazio (24). Basilicata (2), Molise (2) e Calabria (1) i fanalini di coda. L’elenco su Bollini Rosa.