Di Xinjiang avrai sentito parlare negli ultimi mesi, soprattutto a partire dai boicottaggi che hanno interessato in Cina alcuni grandi marchi occidentali, come H&M, Nike e Burberry tra gli altri. Il motivo? Le dichiarazioni di preoccupazioni espresse dai brand nei confronti delle notizie trapelate sui campi di “rieducazione” (da molti definiti campi di lavoro forzato) presenti nella filiera del cotone nello Xinjiang, la regione nel Nord-Ovest del Paese dove risiedono gli Uiguri, una minoranza musulmana e turcofona. La questione dei diritti umani è al centro delle trattative diplomatiche e commerciali tra Cina, Stati Uniti ed Europa, ed è uno dei nodi fondamentali su cui si costruirà il nuovo ordine geopolitico mondiale.

Ora si torna nuovamente a parlare di Xinjiang per via di un’inchiesta del New York Times in cui si riportano le testimonianze di alcune donne Uigure e il parere di esperti nel campo: il governo cinese è infatti accusato di condurre una campagna per controllare i diritti riproduttivi delle donne musulmane. Proprio mentre si spingono le donne di etnia Han (che sono la maggioranza dei cinesi) a fare più figli a fronte di un primo rallentamento della crescita demografica del Paese, le donne appartenenti alle minoranze etniche (in Cina coesistono più di 80 etnie diverse) vengono invece spinte in maniera coatta a usare contraccettivi come la spirale o a subire interventi di sterilizzazione. Questo «sforzo coercitivo» non riguarda solo le Uigure, ma anche le donne (e gli uomini) di origini Kazake, Uzbeke e più in generale i musulmani residenti nello Xinjiang.

Stando alle testimonianze raccolte dal Nyt, era piuttosto frequente che funzionari del governo venissero mandati a casa delle donne convalescenti per «segnalare eventuali segnali di malcontento» e alcune di loro hanno raccontato di aver subito abusi da parte dei loro “controllori”. Se le donne in questione avevano troppi figli o rifiutavano le procedure contraccettive, potevano essere multate oppure detenute in uno dei campi dove gli Uiguri – soprattutto gli uomini accusati, spesso sommariamente, di essere vicini all’estremismo di matrice islamista – vengono “rieducati” ai valori cinesi, di fatto sopprimendo la loro lingua madre e le loro usanze culturali, a cominciare dalla religione. Le testimonianze parlano anche di farmaci somministrati per bloccare il ciclo mestruale e, in alcuni casi, di stupri.

Secondo le fonti ufficiali di Pechino, il recente calo dei tassi di natalità nella regione è invece il risultato delle politiche di governo volte a superare atteggiamenti arretrati riguardo alla procreazione e alla religione. «La scelta di quale contraccettivo usare è pienamente nelle loro mani» ha detto a marzo Xu Guixiang, un portavoce del governo dello Xinjiang, mentre in un rapporto ufficiale dello scorso gennaio la campagna veniva definita un successo: «In questo processo di deradicalizzazione, le menti di alcune donne sono state liberate. Hanno evitato il dolore di essere intrappolate dall’estremismo e di essere trasformate in strumenti riproduttivi». Eppure l’anno scorso le cittadine di Urumqi, la capitale dello Xinjiang, hanno ricevuto un messaggio in cui si diceva che tutte le donne tra i 18 e i 59 anni dovevano sottoporsi a controlli che ne monitorassero l’uso dei contraccettivi o eventuali gravidanze in corso. Qelbinur Sedik, una rifugiata di origine Uzbeka che ora vive nei Paesi Bassi, ha condiviso con il Nyt alcuni di questi messaggi ricevuti su WeChat, l’app di messaggistica più usata in Cina, in cui funzionari governativi scrivevano: «Se litighi con noi alla porta e se rifiuti di collaborare, verrai portato alla stazione di polizia». Nel 2019 Sedik, che ha una figlia, ha deciso di sterilizzarsi.

Secondo gli esperti interpellati dal quotidiano americano, il tasso di natalità nelle contee a maggioranza Uigura della regione è crollato dal 2015 al 2018. Stando alle ricerche del professore Adrian Zenz, le procedure di sterilizzazione nello Xinjiang sono aumentate di quasi sei volte dal 2015 al 2018, raggiungendo la cifra di 60.000, mentre sono precipitate nel resto della Cina. Molte delle contee interessate hanno smesso di pubblicare i dati sulla popolazione, ma secondo Zenz il tasso di natalità in quelle aeree è sceso di più del 50% nel 2018 e nel 2019. Il calo delle nascite è stato definito «scioccante» e legato, almeno in parte, alle politiche governative nella regione, come sostiene Wang Feng, professore di Sociologia ed esperto di politiche demografiche cinesi presso l’Università della California, a Irvine, che ha specificato anche come altri fattori potrebbero includere una diminuzione del numero di donne in età fertile, matrimoni tardivi e nascite posticipate.

La campagna condotta nello Xinjiang, poi, appare fortemente in contrasto con il tentativo delle autorità cinesi di incentivare l’allargamento delle famiglie per contenere le conseguenze demografiche della politica del figlio unico introdotta alla fine degli anni Settanta, formalmente conclusasi nel 2013. Su Donna Moderna ti avevamo parlato delle “leftover women” (“Sheng nu” in cinese, ovvero “donne scartate”) le donne che in Cina hanno superato i 27 anni e non sono sposate, e che perciò subiscono la pressione sociale delle loro scelte. Ora il governo ha messo in campo diverse iniziative di supporto per incoraggiare i giovani a metter su famiglia, ma questi benefici non sono estesi a chi fa parte di una minoranza etnica.