Sale ancora l’aspettativa di vita alla nascita. Nel 2018 la speranza di raggiungere un’età avanzata ha toccato il valore più alto di sempre: la prospettiva media per un neonato è 82,3 anni, 0,3 anni in più rispetto al 2017. Restano le differenze tra componente femminile e componente maschile della popolazione. Per le donne l’ipotetico traguardo finale si è spostato a 85,2 anni, per gli uomini a 80,9 anni. Il differenziale di genere è rimasto costante rispetto ai dodici mesi precedenti.
Lo certifica l’Istat, nel rapporto sul Benessere equo e sostenibile diffuso qualche giorno fa. Questi numeri non stupiscono. A colpire e interrogare sono altri dati, non rassicuranti, quelli dell’età in cui la forma fisica comincia a decadere e ad essere compromessa. La maggiore longevità femminile si accompagna a condizioni di salute più precarie. Gli anni di vita in buona salute attesi alla nascita (sempre nel 2018) sono 57,6 per le donne e 59,4 per gli uomini.
Longevità e rischio di malattie
La speranza di vita a 65 anni – altro indicatore significativo – inquadra il numero medio di anni che una persona di quest’età può aspettarsi ancora di vivere in base ai tassi di mortalità registrati nell’anno di riferimento. Una donna 65enne può sperare di avere davanti ancora 22,5 anni, ma in 12,7 di questi avrà limitazioni nelle attività quotidiane dovute a malattie e acciacchi. Un coetaneo aspira ad avere ancora 19.3 anni di vita, 9.3 dei quali in condizioni di salute precarie.
Donne, uomini e salute: le differenze
«Le donne si ammalano di più» confermano gli esperti del ministero della Salute, «consumano più farmaci e sono più soggette a reazioni avverse e sono “svantaggiate” socialmente rispetto agli uomini (violenze fisiche e psicologiche, maggiore disoccupazione, difficoltà economiche). Inoltre, per le stesse patologie, possono presentare segni e sintomi diversi (infarto del miocardio) o diverse localizzazioni (neoplasie del colon, melanoma). Le donne possiedono un sistema immunitario in grado di attivare risposte più efficaci rispetto agli uomini, e sono quindi più resistenti alle infezioni, ma allo stesso tempo mostrano una maggiore suscettibilità alle malattie autoimmuni. D’altro canto gli uomini hanno un’aspettativa di vita alla nascita inferiore alle donne e una maggiore probabilità di morire di cancro, di incidenti stradali e di altre importanti cause, incluso il suicidio. Inoltre sono più propensi delle donne a fumare, bere alcolici, avere una cattiva alimentazione, non accedere ai servizi sociosanitari».
Altra considerazione, d’aiuto per comprendere le statistiche e le problematiche delle donne. «La risposta alle terapie, in ambito di differenze di genere, riveste un’importanza rilevante. Alcuni parametri fisiologici (altezza, peso, percentuale di massa magra e grassa, quantità di acqua, ph gastrico) sono diversi nell’uomo e nella donna e condizionano l’assorbimento dei farmaci, il loro meccanismo di azione e la loro successiva eliminazioni». Eppure, nonostante le variabili in gioco, «gli effetti dei medicinali sono stati studiati prevalentemente su soggetti di sesso maschile e il dosaggio nella sperimentazione clinica definito su un maschio do 70 chili. Analogo discorso può valere per le prestazioni dei dispositivi medici, come protesi e cateteri, e gli effetti del loro utilizzo».
Le promesse del ministero della Salute
«Questi temi – garantisce Sandra Zampa, sottosegretaria alla Salute – sono alla nostra attenzione, assieme a una serie di altre problematiche. Il 13 dicembre ho avuto la delega alla medicina di genere ed è la prima volta che succede. Prima l’attribuzione di competenze specifiche non esisteva. È uno degli ambiti in cui si può e si deve fare molto. Mi sto documentando. E sto mettendo a punto un calendario di incontri, per arrivare a creare un tavolo di lavoro. A gennaio – anticipa l’esponente del governo – mi confronterò con i rappresentanti di associazioni, categorie professionali coinvolte, società scientifiche e studiose che da anni sono impegnate in particolare su questo fronte. Andrò a vedere come è organizzato e come funziona l’ospedale Macedonio Melloni di Milano, il primo dedicato interamente alle donne, un’esperienza pilota».
«Tenere conto delle differenze tra donne e uomini»
«Le differenze di genere – ricorda Mojgan Azadegan, responsabile del Centro di coordinamento regionale per la salute e la medicina di genere, struttura della Regione Toscana – influiscono su prevenzione, diagnosi e cura delle malattie. Uomini e donne, pur essendo soggetti alle medesime patologie, presentano sintomi, progressione delle patologie e risposta ai trattamenti molto diversi tra loro. In quest’ottica – continua – la medicina di genere prevede specifici obiettivi per lo sviluppo di una cultura e una presa in carico della persona che tenga presenti le differenze di genere non solo sotto l’aspetto anatomo-fisiologico, ma anche quelle biologico-funzionali, psicologiche, sociali e culturali, oltre che di risposta alle cure». Il tutto, con le difficoltà e le carenze che il sistema sanitario nazionale continua ad avere, per uomini e donne, per chi è nella terza e quarta età così come per i più giovani.
«Declinare nei due generi tutte le specialità della medicina»
Giovannella Baggio, fondatrice e presidente del Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, medico e studiosa senior dell’università di Padova, è considerata la pioniera e un’autorità di riferimento in questo campo. Anche lei, per rispondere al bisogno di salute e di benessere delle donne, batte sul tasto delle medicina di genere. «Negli ultimi 50 anni – ricapitola – la medicina è stata riscritta. Pensiamo alle scoperte, alle nuove acquisizioni biologiche e cliniche, alla conoscenza delle malattie e delle basi, molecolari di esse, all’evoluzione tecnologica, alle novità in campo farmacologico, alla scomparsa di alcune malattie e nascita di altre. Tuttavia in questo affascinante percorso ci si è scordati di considerare le differenze di sesso e di genere. È il “buco nero” dell’evoluzione della scienza medica. La medicina di genere tuttavia non è una nuova specialità della medicina. È una sua dimensione. Le differenze sono presenti in ogni branca. Per tale motivo si dovrebbe parlare solo di medicina – genere specifica”. Che fare, dunque, concretamente? «Tutte le specialità, dall’oncologia alla dermatologia, dall’ortopedia alla neurologia, andrebbero insegnate e declinate nei due generi. Tutti gli specialisti dovrebbero occuparsi di queste diversità».
Seguire l’esempio della cardiologia
«Ad oggi – prosegue la dottoressa Baggio – la cardiologia è la branca più avanzata nella conoscenza delle differenze di genere e nella differente pratica diagnostica e terapeutica. Da 10-15 anni si sa che l’infarto è la prima causa di morte nella popolazione femminile. La donna viene colpita più spesso da infarto perché i sintomi non vengono riconosciuti. Non alludo al classico dolore al braccio o al petto. Mi riferisco ai dolori alla pancia e al dorso o alla mancanza di dolore, ma con presenza di affaticamento, respiro corto. In queste situazioni – ecco un altro spunto su cui riflettere e ragionare – una donna o non va al pronto soccorso o va in area verde e non rossa. Una cardiologa americana si è accorta che la parte clinica era completamente diversa da quella di un uomo. Dal lì si è partiti e si sono cominciati ad approfondire gli studi su altri tipi di patologie. Di lavoro da fare ce ne è parecchio. Pensiamo solo al maggior rischio di ictus che hanno le donne, all’obesità che dopo una certa età colpisce di più la popolazione femminile, alla moltiplicazione dei danni da fumo… Per malattie come l’osteoporosi, al contrario, la sottovalutazione c’è per gli uomini».
«L’Italia punta di diamante in Europa»
«L’Italia – rimarca sempre l’esperta – è il Paese che ha fatto più passi avanti a livello europeo, con l’emanazione di una legge che prevede un piano per la diffusione della medicina di genere, promulgata il 15 febbraio del 2018». Il piano attuativo è stato firmato nel giugno 2019. «Indietro – annota l’esperta, pensando alle prospettive concrete che si aprono – non si può più tornare».
«Scontiamo un gap culturale e di conoscenze»
Rita Biancheri, sociologa della salute e docente all’università di Pisa, fa il punto della situazione da cui si parte: «La medicina di genere non è ancora applicata diffusamente in termini di prevenzione, percorsi diagnostici e terapia. Fatica a entrare nella mentalità, nelle prassi, nella ricerca. Scontiamo un ritardo culturale ed epistemologico, cioè di conoscenza. C’è una visione neutra, se non maschile, dei temi legati alla salute. I sintomi delle malattie, per fare un esempio, sono descritti al maschile. Anche la sperimentazione dei farmaci, altro esempio, è prevalentemente maschile. Qualcosa sta cominciando a muoversi. Arrivano le prime borse di studio per ricerche mirate, ci si confronta in convegni e dibattiti. Due anni fa – racconta la professoressa – una mozione dei presidenti di corsi di laurea in medicina ha invitato le università a introdurre la prospettiva di genere. È fondamentale che venga recepita nei contenuti di tutte le discipline scientifiche».
Non solo. «Nel declinare il tema della salute delle donne e della sicurezza sul lavoro – sostiene – vanno presi in considerazione anche i fattori sociali e il contesto di vita, perché l’insorgenza di patologie e di rischi professionali è influenzata da elementi che appartengono alla complessità delle biografie femminili, a cominciar dalla conciliazione tra lavoro e famiglia, dalla scansione dei tempi, dall’intera organizzazione della sfera produttiva e riproduttiva. Le donne – evidenzia ancora la sociologa – spesso sono costrette a conciliare un impiego esterno e le attività domestiche e di cura e per questo sono più esposte ad esempio allo stress lavoro correlato e all’ipertensione, oltre che al rischio di avere incidenti durante gli spostamenti da casa all’ufficio o alla fabbrica».