La sentenza di una giudice di Bologna è destinata a far discutere, ma anche a fare storia perché rappresenta una vittoria importante per le mamme lavoratrici. Tutto è nato quando un’azienda, che opera nel settore della distribuzione con un magazzino nel capoluogo emiliano, aveva deciso di cancellare il turno centrale alle proprie dipendenti, quello dalle 8.30 alle 15.30.

La vicenda: turni di lavoro insostenibili per le mamme

In pratica, invece che avere tre fasce orarie (alba, centrale e pomeriggio/sera) sarebbero diventate solo due (5.30-13.30, 14.30-22.30). Questo cambio, però, rendeva impossibile a molte operaie poter accudire i figli, portarli a scuola e riprendere, seguirli nel pomeriggio nei compiti o nelle attività sportive, a meno di ricorrere a parenti o baby sitter. Ma molte – straniere e italiane – non potevano contare su una rete familiare né potevano permettersi di pagare una persona che stesse con i figli piccoli. Da qui la decisione di dimettersi. A occuparsi del caso sono state l’avvocata Loredana Piscitelli e la Consigliera di Parità, Sonia Alvisi.

Così alcune lavoratrici hanno potuto portare il caso davanti a una giudice (donna) che ha dato loro ragione, individuando un “fattore di rischio” nella maternità e genitorialità.

Cos’è il “fattore di rischio”

La giudice del lavoro di Bologna, Chiara Zompi, parla di “fattore di rischio” indicato nella genitorialità e maternità, che non sarebbe stato tenuto in considerazione dall’azienda bolognese (Lis Group) nella decisione di cambiare i turni a marzo del 2020. Cosa vuol dire? «Si tratta di tutti quei comportamenti subdoli che possono sembrare neutri, ma che in realtà mettono i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a quelli dell’altro sesso. Lo prevede espressamente l’art. 25 del Codice delle pari opportunità (d.lgs 198/2006), che ammette eccezioni solo in caso di quelle che sono definite come “azioni necessarie e appropriate per lo svolgimento dell’attività aziendale”» come chiarisce l’avvocata Marisa Marraffino. Insomma, eventuali differenze sono ammesse solo in casi strettamente necessari. «La riforma del 2010, che ha recepito una direttiva comunitaria, ha incluso espressamente tra i fattori di discriminazione la gravidanza, la maternità e la paternità – anche adottive – considerando discriminatorio ogni trattamento sfavorevole legato a chi è in queste condizioni» aggiunge l’esperta.

Quando la maternità può discriminare

L’azienda in questione ha presentato ricorso, ma la sentenza è subito esecutiva: in attesa dell’esito giudiziario della vicenda, quindi, dovrà assegnare alle lavoratrici madri di figli di età inferiore ai 12 anni un turno centrale o un altro orario concordato. «La maternità o la paternità sono purtroppo ancora oggi fattori che possono determinare le discriminazioni sul lavoro, come riconosciuto espressamente dalla legge. Nonostante i numerosi passi in avanti, fatti anche grazie all’attuale normativa, oggi le donne continuano ad essere più discriminate sul lavoro perché la gestione dei figli e della famiglia rimane ancora prerogativa tutta femminile – osserva l’esperta – Purtroppo lo dimostra la casistica, ancora più evidente nel periodo di pandemia che stiamo attraversando. Fortunatamente, però, i giudici stanno applicando le norme nell’ottica di bilanciare, in concreto, gli squilibri di genere ancora esistenti. La pronuncia del Tribunale di Bologna va in questa direzione».

Cosa può chiedere una madre o un padre?

Il problema, dunque, è vedersi riconosciuti nel concreto quei diritti che sono previsti in via teorica dalla legge. Cosa può chiedere, quindi, una madre? «Una donna che lavora e ha dei figli può chiedere percorsi agevolati al datore di lavoro e il datore di lavoro, quando è possibile, ha l’obbligo di agevolare le richieste dei genitori, motivate dalla necessità di accudire i figli». Ma cosa succede se un’azienda non ne tiene conto? «Nella pratica accade che i lavoratori impossibilitati a seguire, per esempio, turni di lavoro imposti che non tengano conto delle necessità parentali, siano sospesi o licenziati se non si presentano al lavoro. È già accaduto, ma i tribunali ai quali ci si può appellare finora in genere hanno ritenuto illegittimi i licenziamenti e i provvedimenti del datore di lavoro» conferma Marraffino.

Il lavoro della madre e i disagi psicofisici dei figli

Nella sentenza si indicano anche “i gravi disagi e le alterazioni dei ritmi e delle abitudini di vita, potenzialmente forieri di conseguenze sul benessere psico- fisico dei figli”. «È un’applicazione corretta del diritto dei figli alla genitorialità. Si tratta di un diritto fondamentale, tutelato anche dalla Costituzione. I bambini, soprattutto i più piccoli, hanno bisogno di una vita regolare e ritmi che siano il più possibile rassicuranti – spiega Marraffino – Quindi, se l’azienda può farlo, deve mettere in campo ogni azione che possa agevolare i diritti dei genitori e dei figli. La parola d’ordine è la flessibilità organizzativa, in questa direzione vanno anche le più recenti norme sullo smart working. C’è da fare ancora molto sul fronte culturale, però tanti cambiamenti sono già in atto». Come spiega l’avvocata, «In Italia, ad esempio, è ancora poco diffuso l’asilo nido aziendale, ma si tratta di un’altra misura che in concreto potrebbe agevolare molto la gestione della famiglia, anche perché investimenti di questo tipo non aiutano solo i genitori, ma l’intera società».