Il censimento dei 338 centri antiviolenza italiani, i cui dati sono stati appena resi noti dal dipartimento per le Pari Opportunità, ci dice una cosa da non scordare mai: questi numeri li dobbiamo alle femministe. Per un sacco di tempo lo Stato non ha considerato la violenza degli uomini sulle donne come un fenomeno di cui occuparsi. Sono state le donne stesse a creare le strutture e le pratiche che oggi vengono riconosciute come rete di servizio pubblico. Per questo i centri antiviolenza non sono presidi sanitari: per curarsi dalle botte esistono gli ospedali. Non sono nemmeno luoghi dove denunciare gli uomini maltrattanti: per quello ci sono le forze dell’ordine.
Chi si rivolge a un centro antiviolenza cerca e trova molto di più. Prima di tutto altre donne – solo donne – che l’ascoltano e le credono, ma anche case rifugio per sé e per i figli piccini, percorsi di formazione per emanciparsi dalla dipendenza economica e supporto legale. Questi servizi per anni sono stati svolti nel più puro volontariato e, man mano che la società cambiava, i centri si sono adattati a prendersi carico di bisogni sempre più complessi, come il supporto ai bambini vittime di violenza assistita, le straniere abusate, le donne anziane e quelle disabili, sempre più esposte.
Il censimento, oltre a rivelare che il numero impressionante di donne abusate prese in carico è 33.000, ha come obiettivo quello di sistematizzare la rete, uniformando i criteri d’azione e – ha affermato il sottosegretario per le Pari Opportunità Vincenzo Spadafora – finanziandola meglio. Meglio si fa per dire: 37 milioni di euro è la stessa cifra stanziata ai Comuni per dotarsi di telecamere di sicurezza contro il vandalismo, un obiettivo certamente meno importante della salvezza di donne e bambini minacciati dalla violenza maschile. La speranza è che questo nuovo interesse dello Stato non porti al tentativo di cancellare la coscienza culturale femminista da cui i centri sono nati. È grazie a quella che molte di noi si sono salvate la vita.