Siamo malati di plastica. È ovunque e, fino a non molti anni fa, prosperava indisturbata: occultata nei capi di abbigliamento, orgogliosamente impilata nei supermercati o servita a tavola, dato che piccole percentuali finiscono nello stomaco dei pesci che mangiamo, nel sale da cucina e persino nell’acqua. Poi da un lato le dimensioni del fenomeno ci sono sfuggite di mano, dall’altro le campagne di sensibilizzazione hanno fatto breccia.
Così abbiamo iniziato a pensare che potevamo sbarazzarci del problema, e alleggerirci la coscienza, gettando imballaggi e bottiglie nel bidone della raccolta differenziata. Un comportamento virtuoso, certo. «Quello che molti non sanno è che gran parte della plastica è difficilmente riciclabile, e che il suo uso crescente rende sempre più difficile smaltirla» puntualizza Stefano Vignaroli, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti.
I carichi verso l’Asia sono triplicati
I numeri gli danno ragione: l’Italia è ai primi posti in Europa per consumo di plastica, ma, considerando tutta la plastica prodotta a partire dagli anni ’50, solo il 9% del totale è stato correttamente riciclato. Le ragioni sono molte: non riciclabilità di alcune tipologie, scarsa convenienza economica, insufficienza degli impianti di trattamento, la tendenza a riciclare solo imballaggi e bottiglie, buttando spesso nell’immondizia generica merci ad alto contenuto polimerico come giocattoli, pennarelli, sneakers, componenti auto.
Risultato? Ogni anno migliaia di tonnellate di plastica mista lasciano l’Europa in nave per venire smaltite altrove, spesso in Asia. La Malesia è una delle mete predilette: nel 2018, secondo quanto ricostruito dall’ultima indagine dell’unità investigativa di Greenpeace, sono stati inviati qui dall’Italia 650 container di rifiuti plastici, quasi il triplo dell’anno precedente. Il tutto senza garanzie sul loro corretto smaltimento, nonostante le normative Ue prevedano che i rifiuti siano trattati con i nostri stessi standard ambientali e sanitari.
Così, la patria di Sandokan si è trasformata a poco a poco in una nuova Terra dei fuochi su scala globale, dove parte della plastica viene bruciata in improvvisate discariche a cielo aperto o usata per alimentare le molte fabbriche illegali. La situazione è così insostenibile che negli ultimi mesi, in diverse aree del Paese, è scoppiata la protesta. Con le donne in prima fila.
Le malattie respiratorie sono aumentate
«La plastica che riceviamo non sempre è pulita come dichiarato e tanto meno smaltita come si dovrebbe» racconta Lay Peng, chimica di 46 anni che vive a Jenjarom, a pochi chilometri dalla capitale Kuala Lumpur. Un anno fa nella sua cittadina i fumi tossici erano così estesi da spingerla, come altre attiviste sparse per il Paese, a chiedere alle autorità di intervenire.
Da allora sono state chiuse 155 fabbriche illegali, ma la situazione rimane terribile, specie nelle aree interne come Sungai Petani. «Ormai siamo abituati ad alzarci con l’odore della plastica bruciata» ammette Tneoh Shen Jen, primario dell’ospedale cittadino. «Qui il PM 2.5, l’indice delle polveri sottili, supera regolarmente quota 100». Per avere un termine di paragone, basti pensare che i limiti accettabili per la salute umana si fermano a 25, e che in una metropoli come Milano si oscilla tra 12 e 20.
«Non è un caso se le malattie respiratorie sono aumentate del 30% nell’ultimo anno» chiosa il medico. Accanto a lui c’è una pila di denunce, inascoltate. «Se continua così, mi trasferirò». Ma non tutti hanno la possibilità di farlo, anzi. «Per molti l’unica contromisura è tenere le finestre chiuse». Anche nello Stato di Kedah, nel nordovest della Malesia, la situazione è drammatica. «A scuola le attività all’aperto sono vietate e in classe si fa lezione con la mascherina» conferma Lai Miew See dell’associazione Genitori-insegnanti, una delle sigle nate per organizzare la protesta.
Perché in pericolo c’è soprattutto il futuro dei figli, come sa bene Ang Jean Tei, 38 anni, che vive fuori dalla zona industriale di Sungai Petani e ha una bimba di 5, Jia Thong, affetta da una grave infiammazione respiratoria. «I medici hanno detto che l’aria è troppo inquinata per farla uscire» confessa. «Tempo fa l’ho portata a fare una passeggiata, perché non volevo si sentisse in prigione. Ma in pochi minuti il suo naso ha cominciato a sanguinare, e siamo state costrette a chiuderci di nuovo in casa».
I comportamenti virtuosi partono da noi
Dall’inizio del 2019, quelle che la stampa ha ribattezzato “le madri coraggio della Malesia” chiedono al governo di vietare l’importazione di rifiuti plastici. Finora senza successo: le portacontainer italiane, così come quelle del resto del mondo, continuano a partire.
Così, le diverse associazioni provano a fare pressione sui Paesi occidentali, con la campagna intitolata “Potete smettere di mandarci la vostra plastica?”. «Di certo non è questa la soluzione» ammette Roberto Pennisi, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia.
Per il magistrato, l’export di rifiuti plastici non è destinato a diminuire a meno di un netto cambio di prospettiva. Che deve partire da qua. «Il primo passo è ridurre i nostri consumi, a partire dalle confezioni monouso» dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile inquinamento di Greenpeace. «Poi insistere perché i materiali, qui e altrove, siano trattati e smaltiti nel modo più appropriato».
I numeri del fenomeno
14% la quota della domanda italiana di plastica sul totale Ue. Il nostro Paese è il secondo consumatore alle spalle della Germania (che è al 24,6%).
51 milioni la domanda, in tonnellate, di polimeri plastici da parte delle industrie italiane.
40% la quota di materiali plastici utilizzata per fabbricare imballaggi. Di questi, oltre la metà è costituita da confezioni monouso.
570.000 le tonnellate di plastica monouso (in gran parte bottiglie) che invece di essere avviate al riciclo finiscono ogni anno nella raccolta indifferenziata.
197.000 le tonnellate di rifiuti in plastica da riciclo spedite nel 2018 dall’Italia fuori dai confini nazionali. Il loro peso complessivo equivale a quello di 445 Boeing a pieno carico, passeggeri compresi.
18% la percentuale di plastica che si stima sia smaltita illegalmente nel mondo. Fino al 2018, quando ha vietato le importazioni, la Cina era il primo Paese (Fonti: Istat, Greenpeace, Mef).