La polizia ha sgomberato e ripulito, per quel che si può, quasi metà dell’area. Ora, sui sentieri rimasti terra di nessuno, guanti e mascherine finiscono a terra assieme alle siringhe, mentre ogni giorno, a ogni ora, migliaia di persone deambulano come zombie in cerca di una dose. La pandemia ha cambiato il volto delle nostre città, ma non quello del boschetto di Rogoredo, periferia est di Milano, una delle più grandi piazze di spaccio d’Italia: 65 ettari di giungla fra i binari ferroviari e lo svincolo della tangenziale, infestati da pusher, sentinelle e da una Babele di persone in arrivo da tutta Italia per trovare roba buona e a poco prezzo.
«Ho iniziato a sniffare eroina a 16 anni per seguire il ragazzo di cui ero innamorata»
Molti sono giovanissimi, e Alice è una di loro. Anzi, lo era: oggi ha 20 anni, si è disintossicata ed è reduce dalla maturità, l’unico trauma che dovrebbe caratterizzare un’età come la sua. Invece lei è già sopravvissuta a ben altro. «Ho inziato a sniffare eroina a 16 anni per seguire Samu, il ragazzo di cui mi ero innamorata, in pochi mesi sono passata al buco e Rogoredo è diventata la mia seconda casa» racconta nel memoir Alice e le regole del bosco (Mondadori), scritto con lo psicoterapeuta Simone Feder.
È il diario di un viaggio all’inferno che dell’inferno ci mostra la vicinanza. Geografica – il boschetto è a un quarto d’ora dal Duomo e al centro di una zona che verrà riqualificata per le Olimpiadi invernali del 2026 – ma soprattutto sociale.
«Sbaglieremmo a liquidare queste storie come marginali» commenta Feder, che negli ultimi 3 anni ha lavorato come volontario sul campo. «Noi interpretiamo ancora la tossicodipendenza come l’epilogo di una vita sballata, segnata dai traumi e dall’anaffettività. Diciamo: “A mio figlio non potrebbe succedere”. Invece Alice, come la maggior parte dei ragazzi che finiscono nel tunnel, ha alle spalle una famiglia e un’esistenza assolutamente normali. Le mancava qualcosa di stimolante in cui sfogare risorse, intelligenza e noia. Molti adolescenti faticano a farsi ascoltare, a sentirsi parte di qualcosa, e all’inizio persino una serata a Rogoredo, prima ancora che il consumo stesso, può apparire un diversivo piacevole». «Qui tutto si stabilizza in una strana pace» scrive Alice. «È come se ogni problema si risolvesse, come se tutto trovasse un suo ordine nel mondo. Quello che c’è oltre al bosco è orribile, ma qua dentro, con i miei amici, niente mi spaventa».
«Un uomo si è avvicinato offrendomi 20 euro per un rapporto orale»
Del resto quasi ogni nuovo consumatore, raccontano operatori e forze dell’ordine, è arrivato qui seguendo un amico, una fidanzata, un compagno di scuola che già faceva uso di sostenze pesanti: è l’unico elemento di continuità con il boom dell’eroina a cavallo fra gli anni ’70 e ’80. Solo che all’epoca non ci si iniziava a bucare a 14 o 15 anni. Ad abbassare l’età media sono stati molti fattori, ma un ruolo fondamentale ce l’hanno le dinamiche dell’offerta.
«Rogoredo è un supermercato sempre aperto e accessibile. E anche se quasi tutti vengono qui per l’eroina, trovi pure il fumo, la coca, le pasticche» spiega la giornalista Micaela Palmieri, autrice di Next stop Rogoredo (Baldini e Castoldi). «Puoi capitarci anche se hai solo voglia di fumarti uno spinello. Ma una volta dentro, è difficile non essere attratti da qualcos’altro». Nel boschetto un grammo di cocaina costa 40 o 50 euro, la metà rispetto al listino milanese. Per una “punta” (una dose di eroina da fumare o iniettarsi, nel gergo dei tossici) bastano 5 euro, ma si trovano anche bustine a 2-3. Chi ha in tasca 50 centesimi in più riceve anche una siringa pulita. I pusher africani ingaggiati dai cartelli ’ndranghetisti dello spaccio manovrano prezzi e qualità della “roba” per fidelizzare i clienti. «In coda ho visto figli di papà che si vendevano le Nike nuove, liceali già all’ultimo stadio che contavano le monetine, ragazze che si prostituivano per un buco o una sniffata» racconta Palmieri.
Anche Alice ci è andata vicina, l’anno scorso: «Un uomo si è avvicinato offrendomi 20 euro per un rapporto orale» confessa. «Avrei voluto insultarlo o riempirlo di pugni, invece sono rimasta paralizzata. La cosa che più mi ha ferita è che qualcuno pensi che io possa aver perso la mia dignità». Da quando i blitz della polizia si sono intensificati e il presidio medico è presente h24, gli spacciatori e la loro clientela disperata si sono spostati verso l’interno del bosco, dove stanarli è più difficile, soprattutto di notte. «L’afflusso è diminuito, da 1.000-1.500 ingressi al giorno a qualche centinaio» nota Feder. «Ma questo significa solo che i tossici si sparpagliano di più e hanno maggiore difficoltà a trovare ciò che cercano: non a caso le crisi d’astinenza e gli interventi del 118 si sono moltiplicati».
«Ho deciso di disintossicarmi una vigilia di Natale»
Eppure, come dimostra la storia di Alice, da questo degrado si può evadere, dalla droga ci si può liberare. Come? «Serve uno choc» scrive lei nelle ultime pagine del suo libro. «Il mio è stato incontrare mamma e papà che mi cercavano fuori dalla stazione. Era la vigilia di Natale, anche se ormai a me i giorni sembravano tutti uguali. I volontari mi avevano regalato un panettone, neanche riuscivo a reggerlo». Ma lo choc non basta. «Serve anche una guida psicologica che aiuti gli adolescenti ad affrontare i loro problemi, prima ancora della disintossicazione » conclude Feder. «Il detox di Alice non è stato facile, nessun percorso di questo tipo lo è, ma lei ha saputo mettere in campo determinazione e perdono, verso se stessa e verso gli altri. Mi ha fatto pensare che anche noi operatori dobbiamo migliorare: Sert e comunità di recupero non riescono a reggere l’urto, spesso non sono pensati per accogliere adolescenti ancora in formazione che devono affrontare complessità diverse da quelle dell’età adulta». Chi si sente più adulto, ora, è proprio Alice: «La conquista più grande? «Essere grata a me stessa e credere che dopo la maturità, con il mio lavoro, avrò anche io la chance di aiutare gli altri».