«Ho sempre pensato che Internet sarebbe un posto migliore se somigliasse di più alla realtà. Ma la realtà americana degli ultimi anni mi ha fatto venire parecchi dubbi». Jia Tolentino è considerata uno dei più brillanti osservatori della società statunitense. Origini filippine, cresciuta in una comunità cristiana del Texas, un passato da blogger e un’esperienza nei Peace Corps in Kirghizistan, a 32 anni è una firma di punta del New Yorker.

Il suo primo libro, Trick Mirror (vedi sotto), è una raccolta di saggi che analizzano alcuni temi chiave degli ultimi anni: il web che ha tradito le sue promesse di democrazia planetaria, i nodi irrisolti del femminismo a 3 anni dal #MeToo, la cultura del profitto che sovrasta le regole, l’invasività dei social network. Tutti argomenti finiti al centro del dibattito in un Paese che il 3 novembre andrà alle urne per «l’elezione presidenziale più decisiva di sempre», come l’ha definita il politologo Ian Bremmer. Quella di Tolentino è una fotografia accurata e pop, a tratti divertita ma per niente tranquillizzante, dell’America del 2020.

Come definirebbe questa campagna elettorale? «Credo che la parola chiave sia “distanza”. Quella tra Donald Trump e Joe Biden è, paradossalmente, la meno drammatica. Quella fra gli elettori americani e la politica, invece, cresce da anni e oggi si è allargata ancora di più. Non è un buon segnale».

Qual è stato il punto di non ritorno? «La pandemia ha fatto esplodere le contraddizioni. Trump ha insistito così tanto nel negare la pericolosità del virus che a Biden, per sembrare un candidato migliore, è bastato indossare la mascherina. Forse da lui gli americani avrebbero preferito sentirsi spiegare perché in questi mesi il sistema sanitario non ha retto, i test erano introvabili e le diseguaglianze sono aumentate».

Trick Mirror si occupa anche dell’influenza negativa che i social network hanno sulle relazioni. Stanno peggiorando anche il dibattito politico? «Non è tutta colpa loro però sì, lo stanno facendo in modo evidente. Facebook e Twitter potevano avere un ruolo rilevante nel costruire una coscienza politica “dal basso”, ma già alle elezioni del 2016 questa speranza appariva disattesa. E adesso la situazione mi sembra ancora peggiore: le piattaforme sono diventate un luogo di sorveglianza e le uniche emozioni che conquistano spazio partendo dalla base sono rabbia, complottismo e senso di superiorità».

Quali sfide avrà di fronte il vincitore? «Dobbiamo uscire prima di tutto da questa fase di incertezza economica, anche se per farlo occorrerà un approccio ribaltato rispetto a quello che, indipendentemente da chi li guidasse, gli Usa hanno tenuto da Ronald Reagan in poi. Servirebbero forme di reddito universale, protezioni per i lavoratori della gig economy, una redistribuzione della ricchezza che dovrebbe cominciare imponendo limiti proprio ai giganti del tech. Se non lo faremo cresceranno ancora le disuguaglianze, il distacco dei cittadini dalla politica, la polarizzazione. Sono questi i rischi per la democrazia di cui parlavo prima».

Con questo programma Bernie Sanders è stato accusato di proporre soluzioni troppo estreme e datate. «Sanders ha posizioni meno estreme di parecchi politici che fuori dagli Usa governano in tranquillità. E forse, se i problemi sono vecchi, devono esserlo anche le soluzioni. Ma tutto passa attraverso una maggiore partecipazione dei cittadini».

Da questo punto di vista, le proteste che hanno lanciato il movimento #BlackLivesMatter sono un segnale incoraggiante. O no? «È positivo che si sia acceso un faro sulle violenze della polizia, che rimangono un nervo scoperto del sistema. Ed è bello aver visto tanta mobilitazione. Ma il ruolo ambiguo dei social è emerso anche qui, perché prima e dopo ogni manifestazione torniamo a chiuderci nell’individualismo digitale. Così, invece di allargarsi, le proteste a lungo andare diventano una semplice questione di hashtag, magari cavalcata da aziende che nella vita di tutti i giorni discriminano i neri o le donne».

Sono le contraddizioni del capitalismo, che descrive nel capitolo intitolato Ottimizzarsi sempre: abbiamo meno soldi e meno diritti, e la sera combattiamo lo stress ordinando online insalate da 15 dollari e vestiti lussuosi. C’è un modo per uscirne? «Io mi sono data allo yoga, ma in fin dei conti sono solo passata da una dipendenza a un’altra (ride, ndr). Credo che tutto debba partire da una ridefinizione di ciò ci fa stare davvero meglio, e non da scelte drastiche che poi magari non hanno seguito. È come quando durante il lockdown ci rilassavamo a fare il pane ma poi correvamo ad afferrare lo smartphone per paura di essere rimasti esclusi da qualcosa. O, tornando alla politica Usa, è come quando si fanno appelli per andare a votare senza prima riformare le istituzioni per farle funzionare davvero».

Le donne sono un altro filo conduttore di alcuni dei suoi saggi. A più di 3 anni dalla nascita del movimento #MeeToo, qual è lo stato di salute del femminismo a stelle e strisce? «Anche #MeeToo è diventato uno slogan planetario, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. Ha influenzato il dibattito politico meno di quanto prevedessimo, perché il femminismo moderno resta, nelle armi che utilizza, un fenomeno individuale e non collettivo: sii più bella, più forte, più indipendente. Ma a livello sociale qualcosa sta cambiando comunque: l’attenzione a temi come la necessità di un linguaggio più corretto, le molestie, la parità di genere e quella salariale è cresciuta. E questo è un ottimo risultato».

Gli Stati Uniti in 9 saggi “spietati”

Jia Tolentino
Jia Tolentino, 32 anni, nel suo studio di Brooklyn
Credits foto: Elena Mudd

Social network, reality show, abuso di droghe, fanatismo religioso, truffe online, nuovi femminismi, cultura dello stupro, matrimoni improbabili. Sono i temi che Jia Tolentino analizza in Trick Mirror (NR Edizioni, traduzione di Simona Siri), raccolta di saggi che le è valso l’appello di “Susan Sontag della generazione millenial”: 9 saggi apparentemente intimi e scollegati, dai quali però emerge un ritratto lucido e spietato degli Usa.