Si chiamava Elisa Pomarelli, aveva 28 anni, faceva l’impiegata. È stata strangolata e seppellita in un bosco del Piacentino dall’uomo che avrebbe voluto avere una relazione con lei, Massimo Sebastiani, un tornitore di 45 anni. Per catturarlo – e trovare i resti della giovane donna, su indicazione dell’assassino – ci sono voluti giorni. Lui poi ha confessato, pentito, pronto a collaborare. “Ho fatto una stupidaggine”, ha detto l’uomo, come se avesse combinato una cosa da niente e bastasse una parola per porre rimedio. Qualcuno ha parlato di “folle gesto”, anziché di violenza, crudeltà, mancanza di autocontrollo, odio, egoismo, volontà di punire l’incolpevole amica che non voleva innamorarsi e cedergli. Qualcun altro, a cominciare dalla pm che ha coordinato le indagini, ha tirato in ballo il “raptus”.
Colpa attribuita alla malattia mentale: perché?
Per l’ennesima volta, insomma, si torna a declinare con le categorie della follia quello che non si capisce a pieno, non si accetta, non si riesce o non si vuole spiegare diversamente. Possibile? Nei casi di femminicidio succede sempre o quasi. Si attribuisce alla malattia mentale – presunta o data per scontata, anche dove non c’è – la colpa di un’azione negativa estrema, con conseguenze irrimediabili. Oppure si colpevolizza la vittima, in particolare quando è di genere femminile e il delitto si consuma in una relazione di coppia. “Era lei che non voleva stare con lui”, “Lei non lo amava più”, “Voleva andarsene”.
Non esiste la “follia per amore”
In rete si moltiplicano i commenti indignati. Prendono posizione, contro un certo tipo di narrazione, le donne associate e i paladini dei dritti lgbt. Scrivono le attiviste di Telefono rosa di Torino: “Massimo Sebastiani ha orrendamente ucciso Elisa Pomarelli. Orrendamente, per noi, significa averla uccisa, occultandone i poveri resti. Significa averla ammazzata con lucida premeditazione, disfandosi del corpo e fuggendo. Eppure la maggior parte degli organi di informazione parla di raptus, di un uomo che ha perso la testa, di persona innamorata fino alla follia. Secondo quanto riportano gli organi di stampa, per gli inquirenti risulta pentito e collaborativo, preda di un raptus e non armato di chiare intenzioni omicide. Pensare che ancora una volta l’amore abbia fatto un’altra vittima è inaccettabile”.
Cosa si intende per “raptus”?
L’uso e l’abuso di nomi e aggettivi non sono questioni da poco. In tv, sui giornali e nei social si parla di follia in senso psichiatrico? O giuridico (l’incapacità di intendere e volere sancita da perizie)? O giornalistico? I termini usati si rifanno al vocabolario, che riporta il loro significato corrente, o ai manuali specialistici? E se si scende nei dettagli tecnici, se si usa un lessico da addetti ai lavori, quale è il livello di comprensione? I mass media fanno opera di divulgazione e di informazione, per raggiungere un pubblico medio, ampio. Maneggiano termini che, nel linguaggio comune, hanno sfumature di significato diverse da quelle proprie di ambienti ristretti e specialistici. In questo caso, il raptus non viene inteso solo come “reazione psicogena compulsiva acuta”, ma è la parola magica che in certe situazioni dice tutto e niente e cava dall’impiccio di dover riflettere, spiegare, comprendere.
Il femminicidio non è visto così innaturale da imporre la perizia
“Il termine ‘raptus’ è usato in senso improprio. Eventualmente si potrebbe parlare di ‘stato emotivo o passionale’, dove l’emozione e la passione possono essere disperazione, timore di abbandono, gelosia, ma anche odio, egoismo. Oppure, appunto, malattia. Questo vuol dire che ci vogliono prolungati colloqui con il soggetto e bisogna conoscere bene l’accaduto” interviene Isabella Merzagora, docente alla Statale di Milano, presidente della Società italiana di criminologia, una delle prime studiose a occuparsi di femminicidi. “Ricordiamoci che per essere dichiarati incapaci di intendere o di volere ci vuole un nesso causale fra i sintomi dell’eventuale malattia e i fatti commessi”.
Difficile sapere esattamente quanti uomini che uccidono siano sottoposti a perizia. “Non ci sono studi specifici. Per le madri figlicide, invece, si chiede praticamente sempre una perizia (il che non vuol dire che poi siano sempre dichiarate incapaci di intendere e volere), probabilmente perché si pensa che il figlicidio materno sia una cosa talmente ‘innaturale’ da contemplare come spiegazione la malattia di mente. Per gli uxoricidi forse non c’è lo stesso atteggiamento”.
Le persone malate sono tutte violente e viceversa?
Il rischio stereotipi/pregiudizi è sempre in agguato, in un senso e nell’altro. Alcuni psichiatri sostengono che i mass media portano l’opinione pubblica a ritenere che “i malati mentali sono particolarmente inclini all’omicidio”. Non è così. E non sempre vale il contrario: “Non c’è alcuna relazione tra malattia mentale e propensione al delitto”. Ci sono, purtroppo, casi di omicidio in cui la malattia mentale entra in gioco e un nesso esiste. Per altri casi ancora, a dispetto delle apparenze, moventi e cause vanno ricercati altrove, al di fuori della malattia mentale. Coloro che per i commentatori “fanno cose da pazzi”, ad esempio i serial killer, non sempre lo sono in senso stretto o giuridico.
La perizia psichiatrica non è automatica
Il solo parametro di riferimento, per una valutazione numerica e percentuale degli omicidi legati alla follia, è costituito dai risultati delle perizie psichiatriche, non da “diagnosi giornalistiche” o opinioni espresse a caldo da investigatori e inquirenti. Ma anche qui ci sono alcuni limiti. Non tutti gli assassini vengono sottoposti a test e valutazioni mirate (oltre a quelle fatte all’atto dell’ingresso in carcere). Il discrimine lo fanno i giudici, scegliendo se disporre o meno perizie psichiatriche, su richiesta della pubblica accusa o degli avvocati difensori.
La perizia psichiatrica si fa raramente nei femminicidi
In altri Stati il ricorso alle perizie è massiccio. In Italia è discrezionale, non basta ventilarlo sui giornali o in un talk show. Se il movente di un omicidio è chiaro, palese, la perizia non viene disposta. Pm e legali possono però affidare consulenze a esperti di fiducia e servirsene in sede processuale. Se manca il movente, questa è l’impressione, è più facile che la perizia ci sia. Per gli uomini che odiano le donne sembra esserci una scarsa applicazione (ma non sono stati fatti o non sono noti studi specifici).
Massimo Sebastiani: incapace di intendere e volere?
Non è detto, quindi, che lo strangolatore di Elisa verrà sottoposto a perizia. Si vedrà. Il suo difensore sta valutando il da farsi. Gli accertamenti peritali degli esperti, infatti, sempre che vengano disposti, potrebbero avere tre esiti di tipo diverso: dichiarazione della totale incapacità di intendere e volere al momento del delitto (non dopo), vizio parziale di mente o sanità mentale (oppure presenza di disturbi che non hanno influito sulle scelte del reo).
Chi è incapace di intendere e volere non sempre viene messo in libertà
Il riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere non comporta necessariamente che l’omicida sia messo in libertà. I periti devono anche pronunciarsi sulla sua pericolosità. Se risulta pericoloso, viene rinchiuso per 5 o 10 anni in una Rems (la struttura che ha sostituito l’ospedale psichiatrico giudiziario), come misura di sicurezza. Alla scadenza dei termini (o anche prima) viene effettuata una nuova valutazione della pericolosità e si decide di conseguenza: dimissioni oppure prolungamento del ricovero.
Il parziale vizio di mente comporta una riduzione della pena e la permanenza in carcere. Invece gli assassini non pericolosi, e totalmente infermi di mente, restano o vengono rimessi in libertà.
Chi sembra folle non sempre lo è
Le perizie e le consulenze, poi, possono dare gli esiti più diversi. La stessa persona – dove i giudizi divergono – viene ritenuta totalmente incapace di intendere e volere, parzialmente incapace di intendere e volere o del tutto sana, a seconda che ad esaminarla siano gli esperti della difesa, del gip o della corte, delle parti civili o del pm. I “periti dei periti”, cioè chi alla fine decide – sono i giudici, chiamati a trarre le conclusioni. Per esempio due mamme infanticide, a Milano, a distanza di pochi mesi sono state valutate in modo opposto: una totalmente sana e dunque perseguibile e condannabile, l’altra completamente incapace di intendere e volere e non più pericolosa. Un autore di omicidio messo in semilibertà, dopo i pareri tranquillizzanti e positivi formulati dai consulenti del Giudice di sorveglianza, è tornato ad uccidere le donne (due volte, forse tre) e a mesi di distanza dal tardivo arresto si è tolto la vita in carcere.