Ma non si vergogna? È una domanda che ultimamente mi faccio spesso. Soprattutto quando mi fermo a guardare certi post di Instagram. Sapete quel menu di immagini in cui ci si imbatte malauguratamente al mattino quando si apre la app?
Condividere tutto ci rende ridicoli
C’è gente che piange, gente che ride, gente che urla, gente che balla, gente che si confessa, gente che sfila in micro bikini con forme giunoniche o bicipiti da culturista, gente con seni e bocche enormi (ENORMI!), gente che si trasforma da ottuagenaria in ventenne tramite laboriosa operazione di make up, gente che sventola addominali flaccidi e glutei in caduta libera, gente che stira i capelli, gente che arriccia i capelli, gente che sbandiera ai quattro venti le proprie vittorie e le proprie miserie, gente che pontifica, gente che si lagna, gente che sfida il senso del ridicolo, che mette su piazza quello che un tempo si teneva prudentemente per sé, che alza l’asticella per essere guardata, ascoltata, persino criticata, purché qualcuno si accorga di lei. Gente che si mette in mostra h24, malata di protagonismo, egotica, impudica. Lo dico senza giudizi morali. Per puro buon senso, chiedendomi: ma non è troppo?
I social sono ladri di tempo
Perché? In nome di che cosa? Pensiamo forse di salvare il mondo con le nostre pelli cascanti e contouring e filippiche e gag e rivelazioni scottanti? Pensiamo di diventare paladini di qualcosa? Portatori di nobili messaggi di libertà e inclusione? No, siamo solo brutti e patetici. Ladri di tempo. Il bello è che quanto più la gente si espone, tanto più mi viene voglia di nascondermi. Non dare, non dire, tenere per me. Condividere solo lo stretto necessario. Per il resto, riscoprire il valore della riservatezza e del silenzio. In un’epoca di perenne rumore di fondo, di opinioni non richieste, di continuo e improduttivo straparlare, di sovraesposizione e narcisismo tossico, farsi da parte e tacere lo trovo un gesto meraviglioso ed eroico. L’unico davvero controcorrente. Una ribellione tacita ma radicale al dominio della parola irrefrenabile e categorica, all’onnipresenza dell’immagine invadente e bulimica.
La timidezza è un atto sovversivo
Pensate che atto sovversivo farsi i fatti i propri, nell’era in cui tutti godono nel farsi i fatti altrui. E farseli senza alcun intento vanaglorioso o salvifico. Solo per salvare se stessi dalla morbosità di occhi famelici. Per questo amo i timidi. La loro naturale ritrosia. Lo spazio vitale che innalzano come un muro di cinta attorno a sé. Creando un campo magnetico che li isola dalle aggressioni e dal chiasso del mondo. Rendendoli impermeabili. Anche se sono in realtà permeabilissimi. Per questo si proteggono, per non farsi contaminare. Vivendo magari con disagio questa autosegregazione, l’irrimediabile difficoltà a integrarsi nel consesso umano, ma non perché ne sentano il bisogno, solo perché desta attenzione. E l’attenzione è l’ultima cosa che vogliono. Girare le spalle a ciò per cui altri ammazzerebbero la madre: che coraggio, che provocazione!
Elogio della timidezza
I timidi sono come isole inespugnate. Luoghi vergini, non devastati dall’overtourism, dove tutto è ancora da conquistare e da scoprire. Terre inesplorate non raggiunte da Google Maps, in cui nessuno è stato, nessuno ha condiviso, nessuno ha messo una rete wi-fi. L’accesso è limitato a pochi eletti. Ma è proprio questo essere fuori dai radar a rendere le sue coste più preziose, il suo paesaggio più bello e misterioso, una rivelazione che si dischiude alla vista poco alla volta. Ogni parola è un regalo, ogni segreto che si svela una pepita d’oro. Insomma, quello che fino a ieri ci sembrava un difetto, la timidezza, ora ci appare come merce rara. Le ultime sfilate dell’Haute Couture, così discrete e sobrie, o il nostro eroe del tennis Jannik Sinner, campione dell’understatement, ne sono degni testimoni. Sarà che sta cambiando il vento? Può darsi. Ma in linea con lo spirito del trend, non sarà bora ma brezza leggera. Non affannatevi a cercare un cappotto, al massimo un foulard.