Dopo tre giorni di sospensione di alimentazione forzata e idratazione artificiale, alle 20.10 del 9 febbraio 2009, Beppino Englaro ricevette la telefonata dalla clinica La Quiete di Udine. Sua figlia Eluana non c’era più. Eppure l’attesa per la fine di quella condizione «estranea al suo modo di concepire l’esistenza» – quello stato vegetativo cui Eluana era costretta per le conseguenze di un incidente d’auto – era durata molto di più: 17 lunghissimi anni.
Chi era Eluana
Dieci anni fa mancava Eluana Englaro, ma mancava anche una sensibilità, nella società italiana, verso il tema del fine vita e dell’accanimento terapeutico. Che oggi si è sviluppata, probabilmente anche grazie alla battaglia condotta da quella ragazza e dalla sua famiglia. Il caso di questa giovane di Lecco, uscita di strada con la sua automobile nel gennaio del 1992, quando aveva appena compiuto 21 anni, si è trasformato, per quasi un ventennio, in un calvario pubblico, trasparente e doloroso.
Le fratture craniche riportate la confinarono in uno stato vegetativo irreversibile. La famiglia, con il padre Beppino in prima fila, intraprese una battaglia legale per far valere le volontà di Eluana, con l’appoggio di esponenti dei Radicali italiani, dell’Associazione Luca Coscioni e di Nessuno tocchi Caino. Lei, quando ancora era in vita, aveva visto un amico in quelle condizioni, aveva espresso contrarietà verso l’accanimento terapeutico. Mai in quella trappola, aveva detto ai suoi.
Il calvario dei processi e delle polemiche
Invece in quella trappola sarebbe rimasta per 6.233 giorni. Undici processi, quindici sentenze tra magistratura italiana e Corte europea, feroci polemiche. Tutto perché passasse l’idea che la volontà espressa da Eluana aveva un valore. Doveva essere rispettata.
Alla fine, nel luglio 2008, la decisione definitiva della Corte d’appello di Milano e il ricorso da parte della Procura della Repubblica. Poi la pronuncia della Cassazione, a novembre, che respingendo il ricorso diede di fatto a Beppino l’autorizzazione a interrompere le cure. Arrivò il rifiuto della Regione Lombardia a mettere a disposizione sue strutture sanitarie per stoppare il sostegno forzato che manteneva in vita Eluana Englaro. Un “no” espresso anche di fronte a una sentenza definitiva. Un diniego pagato, poi, con una condanna per la Regione, costretta a versare un risarcimento di 164.000 euro.
Come è cambiata l’opinione pubblica
Per questo Eluana morì a Udine, mentre fuori il dibattito pubblico ancora infuriava. Nel rumore, spesso si faceva confusione tra interruzione dell’accanimento terapeutico e suicidio assistito. «Ci fu una strumentalizzazione politica del dolore di una famiglia» ricorda oggi l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni. «È innegabile che la battaglia portata avanti dal papà di Eluana per affermare la volontà della figlia abbia fatto esplodere nel nostro Paese la questione».
Secondo un recente sondaggio Eurispes, 3 italiani su 4 oggi sono favorevoli al biotestamento, la scelta preventiva e individuale in materia di trattamenti sanitari. È una realtà, ed è previsto da quando è entrata in vigore la legge 219, il 31 gennaio 2018.
Il testamento biologico
Come funziona? «Per far valere le proprie Dat (Disposizioni anticipate di trattamento) si può, volendo, scaricare e compilare il modulo dal sito della nostra associazione. Però la legge» spiega Gallo «prevede anche una forma libera, in cui si indicano i trattamenti che non si vogliono far applicare e quelli da applicare in caso di condizioni patologiche irreversibili». Il nero-su-bianco va consegnato all’Asl o in comune. «Quello che ancora manca» spiega l’avvocato «è il Registro Nazionale per le Dat, una banca dati nazionale dei testamenti biologici che sarebbe dovuta essere operativa entro il 30 giugno 2018 e di cui ancora non vi è traccia. Se manca il circuito che mette in comunicazione tutti i soggetti che possono dover intervenire, è più difficile dare valore al testamento biologico».
Attenzione: nel testamento biologico non si può chiedere che venga somministrato un farmaco letale, per porre fine alla propria vita. È l’altro grande tema: l’eutanasia.
Stando al già citato sondaggio Eurispes, 7 italiani su 10 si dicono favorevoli. Emblematico il caso di Dj Fabo, rimasto tetraplegico in seguito a un incidente e accompagnato a morire in una clinica in Svizzera, nel febbraio 2017, da Marco Cappato, leader dell’Associazione Luca Coscioni. Cappato poi si autodenunciò e finì a processo per aiuto al suicidio. Fu un atto di disobbedienza civile, e nei prossimi mesi torneremo a sentirne parlare. «In Parlamento sono iniziati i lavori sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia» conclude Gallo «che punta a depenalizzare alcuni reati previsti quando viene aiutato un malato a morire e, soprattutto, stabilire un perimetro medico di requisiti per poter accedere al suicidio assistito».