Dopo decenni di terrorismo riproduttivo «I figli non si devono fare dopo i 30 anni!» e gravidanze con lo stigma “primipara tardiva” a 29, qualcosa è cambiato. 2019, quasi 2020. Provate a camminare per Milano in cerca di passeggini: a spingerli vedrete quasi tutte 40enni. L’Italia è il Paese europeo con il tasso più elevato di donne che fanno il primo figlio dopo gli “anta”: il 7,2%. E così la parola del decennio, per le coppie adulte, è Fivet: fecondazione in vitro con trasferimento dell’embrione.
Ovvero, quel procedimento previsto per i casi di infertilità con cui viene generato in laboratorio un certo numero di embrioni per poi procedere all’impianto in utero. Ma la scienza non è invincibile. Dopo il trasloco della cellula si torna alla fase umana di tutta la mistica faccenda: si prega che l’embrione attecchisca. E se va tutto bene, i futuri genitori se ne andranno dalla clinica in pace (in 3) e renderanno grazie anche a Dio. Fin qui, sembrerebbe una bella storia di progresso scientifico. Se non fosse che per ogni progresso c’è qualcosa che sfugge di mano.
Ciò a cui nessuno aveva pensato, medici e legislatori, era l’embrione in attesa
Ovvero: cosa succede a quelle cellule conservate nell’azoto liquido, se non vengono utilizzate? Più precisamente: cosa sono quelle cellule sospese a 200 gradi sotto zero, per la legge? Tutto e niente. Sono appunto cellule sospese, un soffio di vita, materiale genetico che non può essere manipolato. E che fine fanno? Domanda senza risposta, domanda che è quasi meglio non fare. Perché in Italia l’embrione è considerato quasi una persona, è dotato di soggettività giuridica. Secondo molti, anche indipendentemente dal trasferimento nell’utero. Cosa vuol dire, tradotto dai termini legali a quelli reali? Che l’embrione congelato è un mezzo bambino, forse qualcosa in più (già nell’art. 1 della legge sull’interruzione di gravidanza, n. 194/1978, si dice che «la vita umana è tutelata fin dal suo inizio»). Insomma, per la legge italiana è già titolare dei diritti personali fondamentali.
Perché ce ne importa tanto, di definire “cos’è un embrione”?
Perché le parole pesano, in tribunale ancora di più. Succede che le richieste ai magistrati per il transfer in utero contro il consenso dell’altro coniuge, magari dopo una separazione, non siano più così rare. È di qualche settimana fa l’accoglimento, da parte del tribunale di Lecce, del ricorso per l’impianto in utero dell’embrione fecondato dal coniuge defunto. Il magistrato ha considerato che il marito non aveva espresso parere contrario: «I coniugi avevano manifestato formalmente la comune volontà di “non abbandonare” gli embrioni (da essi destinati a ulteriori tentativi), e, successivamente, essendo il marito deceduto senza avere manifestato alcuna volontà contraria alla conservazione e all’utilizzo inter coniuges degli embrioni prodotti, la moglie ha un diritto esclusivo e insopprimibile al trasferimento su di sé degli embrioni a suo tempo prodotti e congelati». È la terza sentenza di questo tipo in Italia.
Il consenso del coniuge/compagno si presume prestato al momento della fecondazione in vitro
e da allora, stando anche alla legge, non è più revocabile. Ma se il consenso vale nel momento della fecondazione e da lì per sempre, che succede in caso di separazione e divorzio? Vale il dissenso espresso successivamente oppure no? «Consentire la revoca del consenso anche in momento successivo alla fecondazione dell’ovulo» scrive la Cassazione «non apparirebbe compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni, più volte affermata dalla Consulta (tra le altre, Corte Cost. 151/2009 e 229/2015)».
Per altri magistrati, invece, esiste la possibilità per l’ex coniuge separato di negare l’impianto dell’embrione,
perché «il consenso alla procreazione artificiale viene espresso nel presupposto e nella convinzione che il figlio nasca nell’ambito di una famiglia nella quale il nascituro possa godere dei suoi diritti costituzionalmente garantiti quale quello primario e fondamentale di avere una figura paterna». Per questo il tribunale di Bologna, per esempio, con sentenza del 26/06/2000, sosteneva che gli ovuli umani fecondati ma non impiantati e crioconservati sono, sul piano biologico e giuridico, «entità ben diversa dagli embrioni già allocati nell’utero materno, che non godono della stessa tutela legale e non hanno le stesse prerogative giuridiche della persona nata viva», per cui non sussiste, a seguito della separazione e in caso di dissenso del coniuge di sesso maschile, il diritto della donna di richiederlo.
Insomma, ridotta la questione ai minimi termini, ci sono 4 principi di legge,
tutti in contraddizione: 1. Il diritto dell’embrione di nascere, o almeno di sopravvivere. 2. Il diritto del bambino ad avere 2 genitori. 3. Non esiste un diritto della donna a esse- re madre, ma esiste (senza opposizioni) un di- ritto al trasferimento su di sé degli embrioni. 4. Esiste un diritto a non essere padre contro la propria volontà.
Qual è la soluzione, quindi?
Cosa succede agli embrioni congelati, in caso di disaccordo, se si porta la questione in tribunale? Sono i (pochi) casi in cui tutto dipende dalla sensibilità del giudice. Non c’è un solo orientamento corretto, quindi ogni decisione non è sbagliata. Se vi sembra una cosa da pazzi, è perché lo è.