Roma è travolta dall’emergenza rifiuti. La crisi è cominciata quando sono venuti a mancare i siti per il trattamento della spazzatura: la Capitale non riesce a smaltire da sola il 60% dell’indifferenziato. Su tutto, poi, si è innestato anche uno scontro politico. Ma come si è arrivati a questa situazione? Ecco 4 domande (e risposte) per capirlo.
Quanta immondizia produce la Capitale?
Si parla di 5.000 tonnellate al giorno: 2.000 sono riciclabili, 3.000 di rifiuti indifferenziati. La quantità è talmente impressionante che neppure gli impianti del Lazio, messi tutti insieme, riuscirebbero a smaltirla. I rifiuti capitolini prendono quindi altre strade. Treni e tir li trasportano verso 62 siti. Destinazione principale: l’Est Europa (Bulgaria e Romania) e il Portogallo. E poi molti altri impianti in 10 Regioni italiane, tra cui Lombardia e Friuli. Si stanno definendo anche nuovi contratti per trasferire altra immondizia in Germania e Austria. Ovviamente il Comune di Roma paga questo servizio di smaltimento offerto da altre regioni e Stati Ue.
Quando è iniziata l’emergenza?
La crisi vera è cominciata nel 2013, quando l’allora sindaco Ignazio Marino ha chiuso a Malagrotta la più grande discarica d’Europa: un “buco” dal tremendo olezzo di 240 ettari (pari a circa 300 campi di calcio). Su quel sito pendeva una procedura delle autorità Ue, che ne chiedevano la chiusura perché dentro ci finiva di tutto. Di fronte a questo fatto, l’amministrazione ha provveduto a mettere in atto un piano alternativo per trattare i rifiuti, che sembrava reggere, sebbene in equilibrio precario. Perché allora si è tornati ai cassonetti pieni per strada e ai cumuli di sacchetti impilati? Il 16 maggio, dopo un controllo, le autorità hanno bloccato per alcune irregolarità l’impianto di Frosinone, che trattava 300 tonnellate di rifiuti della Capitale. I camion della spazzatura sono stati dirottati su altri impianti, intasandoli. Risultato: i tir non scaricavano i rifiuti in tempo e quindi non potevano fare il secondo giro per raccogliere gli altri sacchetti. Roma, insomma, soffre di una carenza strutturale di impianti per trattare in autonomia la propria immondizia. Delle 5.000 tonnellate prodotte oggni giorno, almeno 600 sono di rifiuti organici trasformabili in energia, se solo ci fossero gli impianti.
Da dove nascono le polemiche politiche?
In questa emergenza, si è innestato uno scontro politico. Il 25 luglio, la neo-assessora capitolina all’Ambiente, Paola Muraro, va in visita all’Ama, la municipalizzata che raccoglie e smista l’immondizia. E’ un blitz a sorpresa. L’incontro con il presidente di Ama, Daniele Fortini, viene trasmesso via streaming sul web. Lo scontro si consuma su Rocca Cencia, un impianto fermo e non usato. «Perché – chiede l’assessora – quell’impianto, messo a disposizione del Comune con una delibera regionale, non viene utilizzato da Ama?». Quindi si apre una guerra di dossier. Fortini accusa l’assessora di essere stata consulente in Ama. Poi spuntano 3 telefonate di Paola Muraro con Salvatore Buzzi, a processo per Mafia Capitale. Il caso viene portato il 10 agosto in un Consiglio comunale straordinario in cui si chiede la sfiducia dell’assessora Muraro. Sfiducia che viene respinta. «Non si può eccepire che non sia competente, forse è diventata troppo scomoda?» la difesa della sindaca di Roma, Virginia Raggi.
Perché i rifiuti romani non si possono smaltire altrove?
Nel frattempo, l’amministrazione a guida Movimento 5 stelle ha messo a punto un programma a tappe serrate che ha preso il via e che si propone entro dicembre 2016 la presentazione di un progetto impiantistico sulla strategia rifiuti zero. E per gestire, in emergenza, la fase di smistamento dei sacchetti blu che ancora si trovano in giro ha chiesto «priorità di conferimento verso altri impianti in Umbria». Ma Catiuscia Marini, presidente di quella regione ha replicato: «Siamo su Scherzi a parte?». Alzata di scudi anche dai sindaci di altri Comuni interessati, da Terni a Orvieto: «L’emergenza rifiuti della Capitale non deve ricadere, per forza di cose, su altri territori come il nostro».