11 e 12 marzo appuntamento in piazza

Marzo è il mese della consapevolezza dell’endometriosi. In 30 piazze italiane, dal Piemonte alla Calabria, Sicilia e Sardegna incluse, sabato 11 e domenica 12 marzo 2023 l’A.P.E. – Associazione Progetto Endometriosi – distribuisce gerbere e girasoli a sostegno della corretta informazione sulla malattia. Durante le due giornate le volontarie allestiranno tavoli informativi, mettendo a disposizione le piantine. I contributi raccolti con i Fiori della Consapevolezza serviranno all’A.P.E. per organizzare attività a supporto delle donne, tra cui la formazione medica specializzata per migliorare concretamente i percorsi terapeutici per l’endometriosi su tutto il territorio nazionale.

Fino a 8 anni per la diagnosi

Da un sondaggio online su 900 donne ammalate di endometriosi realizzato dall’Associazione Endometriosi Friuli Venezia Giulia Onlus, emerge che il 30 per cento delle pazienti ha ricevuto la diagnosi di endometriosi con un ritardo di oltre otto anni. Dati che – per una volta – non devono stupirci, perché in linea con quelli internazionali, dove la diagnosi può impiegare dai 5 ai 9 anni. Ciò non significa, naturalmente, che i tre milioni di donne italiane che ne soffrono, sentendosi in buona compagnia, possano stare meglio. Anzi: è ancora più evidente che si tratti di un problema di scelte politiche e sanitarie, e non solo a livello italiano ma europeo.

Cos’è l’endometriosi?

L’endometriosi è una malattia cronica, in Italia non riconosciuta nella sua gravità, difficile da diagnosticare, nonostante nel nostro Paese ne soffrano tre milioni di donne. «Si può formare all’interno o all’esterno dell’utero a causa di cellule “impazzite” che escono dal tessuto dell’endometrio, attaccando altri organi, come vescica e intestino. Per questo spesso viene confusa con altre patologie. I sintomi sono molti, tra cui stanchezza cronica, dolori molto forti durante l’intero ciclo mestruale (quindi i 28 giorni), dolori articolari, dissenteria, occlusioni intestinali, cistiti ricorrenti. Per non parlare del 25 per cento dei casi in cui è asintomatica e si rivela in fase già acuta dopo aver provocato danni irreversibili per esempio all’intestino, all’uretere o al rene» spiega Sonia Manente, presidente dell’associazione e malata lei stessa di endometriosi.

Perché la diagnosi è difficile?

La malattia è difficile da diagnosticare perché è ancora poco studiata. Per questo, e per risolvere altre criticità, come la creazione di registri regionali e lo stanziamento di fondi per la ricerca, è stato appena presentato un disegno di legge, approdato al Senato, proprio con la collaborazione della sede friulana dell’Associazione Italiana Endometriosi. «Il ruolo del medico di base e del ginecologo – quindi la loro formazione – è fondamentale per avere la diagnosi in tempi rapidi. Troppo spesso oggi le donne eseguono esami inutili, con una spesa sostanziosa a carico del Servizio sanitario nazionale e un dispendio di tempo che si potrebbe evitare: basti pensare alle lunghissime liste d’attesa e al peregrinare delle pazienti tra un medico e l’altro, dal ginecologo al nefrologo al gastroenterologo all’internista. L’iter diagnostico in Italia inizia con una semplice ecografia addominale che però in prima battuta non viene eseguita su macchinari di terza e quarta generazione, ma su apparecchi semplici, di primo livello. Ci vuole un occhio molto allenato per riconoscere la malattia con questi strumenti. Solo se emergono dei dubbi, si passa al secondo livello, cioè a macchinari più sofisticati, e successivamente alla risonanza magnetica. E intanto passa anche un anno e i costi lievitano».

Quando non si pagano gli esami?

Dal sondaggio emerge che per l’83 per cento delle donne la risonanza magnetica si è rivelata positiva: ma quanto tempo e soldi, sia per lo Stato che per la singola paziente, nel frattempo si sono spesi? Quante sofferenze si potrebbero evitare? In Italia, solo chi ha un sospetto di endometriosi di terzo e quarto stadio – quindi grave – può fare esami previsti nei Lea (i Livelli essenziali di assistenza), cioè pagando solo il ticket.

Negli altri casi, quelli meno gravi, il peso degli accertamenti è sulle spalle della donna ammalata. Ma non basta. «Questi esami sono insufficienti a concludere una diagnosi» prosegue Sonia Manente. «La ricerca dei marcatori del sangue specifici, per esempio, porta a un risultato positivo solo nel 50 per cento dei casi. Il clisma opaco, altro test previsto, solo in alcune circostanze può aiutare la diagnosi, cioè quando la malattia si è insinuata nell’intestino. Nei casi in cui ha attaccato la vescica, questo esame non risulta utile».

Come dev’essere fatta la diagnosi?

Non è detto poi che la diagnosi venga effettuata nel modo giusto. «Occorre che i medici lavorino in équipe multidisciplinari e siano concordi nell’utilizzare un solo criterio, cioè numerico. Solo con una diagnosi di terzo e quarto stadio, quelli previsti dai Lea, le pazienti possono accedere alle esenzioni. Se lo specialista diagnostica un’endometriosi “grave” o “profonda”, ha prodotto una certificazione che non serve».

Che invalidità viene riconosciuta?

Una diagnosi così, non serve né per accedere alle esenzioni né per ottenere una seppur minima invalidità civile. Oggi chi ha un’endometriosi di primo e secondo stadio si vede riconosciuto il 10 per cento di invalidità, che passa da un minimo di 11 a un massimo di 20 nel terzo e quarto stadio. Un’invalidità che nei primi livelli della malattia non consente di avere alcun vantaggio, nei successivi permette di accedere ad alcune cure di base e alcuni esami, ma le cui modalità variano da regione a regione. «Resta importante, per le donne che soffrono di endometriosi, farsi comunque registrare presso la propria Asl e ricevere così il codice della malattia – che è lo 063 – per non pagare alcuni esami. Registrarsi è importante anche in vista della creazione dei registri regionali, utili a monitorare la situazione per poi prendere decisioni politiche strategiche». Per ora è tutto ciò che si può fare.

Come vengono certificate le assenze dal lavoro?

Quello che invece occorrerebbe è il riconoscimento come malattia cronica invalidante: «Permetterebbe di ridurre quel clima di diffidenza intorno alla malattia che, non dimentichiamocelo, avendo a che fare con il ciclo mestruale, risulta per essere poco credibile e poco “certificabile”» prosegue Sonia Manente. «Molte donne, per evitare commenti negativi sul posto di lavoro e non perdere autorevolezza, vanno a lavorare nonostante i forti dolori. Oppure capita di frequente che, quando si assentano, si ritrovino spesso di fronte a medici che non certificano la malattia, nonostante la paziente sia in possesso della diagnosi. Sui certificati spesso i medici scrivono “infiammazione” oppure “cefalea” o “dolori lombari”. Insomma, anche davanti a una diagnosi, molti dottori faticano a certificarla per il datore di lavoro. Se fosse invece riconosciuta come malattia cronica invalidante, si verificherebbe una piena condivisione da parte di medici e aziende, fuori da ogni dubbio o supposizione sulla donna coinvolta e la sua lealtà».

Quanto pesano le assenze dal lavoro?

Il primo studio sull’impatto della malattia sul lavoro, condotto su 909 casi dalla World Endometriosis Society in 10 nazioni e 12 centri specializzati, rivela che ogni donna in media sostiene un costo diretto di 3.281 euro all’anno, mentre i costi indiretti legati alla perdita del lavoro sono quantificati in 6.298 euro all’anno. In totale, insomma, a causa dell’inabilità al lavoro si perdono a testa circa 10mila euro all’anno.

Le ragazze conoscono la malattia?

L’endometriosi colpisce le donne in età fertile, anche in adolescenza. Ma poche ragazze conoscono la malattia e associano i disturbi  del ciclo all’eventualità di soffrirne. Dal sondaggio realizzato sempre dall’Associazione Endometriosi Friuli Venezia Giulia Onlus su 700 ragazze, emerge che nel 72 per cento dei casi le studentesse non hanno mai sentito parlare di questa patologia. Eppure, raccontano di un ciclo mestruale irregolare nel 77 per cento dei casi, doloroso nel 32, e di assenze da scuola nel 45 per cento dei casi. Nonostante ciò, il 67 per cento delle adolescenti non ha mai effettuato una visita ginecologica. «La diagnosi precoce è uno snodo fondamentale nella lotta alla malattia» conclude la presidente dell’associazione. Che invita a consultare la pagina Facebook e a partecipare a Roma il 30 marzo alla sesta Marcia mondiale contro l’endometriosi. Il leit motiv sarà Time to end the silence, Tempo di mettere fine al silenzio. L’appuntamento è in largo Corrado Ricci, il via verrà dato alle 12. Altre informazioni si possono trovare sulla pagina Facebook Endomarch team Italy, assieme a testimonianze e racconti di donne ammalate.