«A volte Torino sembra un paio di decenni indietro sul tema integrazione. Sono stanca di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che io rubi qualcosa». A scriverlo, con un editoriale sul quotidiano britannico The Guardian, è l’attaccante della Juventus Eni Aluko, che annuncia così l’addio alla squadra, dove era approdata appena un anno fa, e l’addio al nostro Paese. «Sul campo abbiamo ottenuto molti successi in breve tempo: abbiamo vinto il campionato, la Coppa Italia e la Supercoppa. Fuori dal campo, penso sia giusto dire che le cose sono state un po’ più difficili».
Aluko, classe 1987, ha anche detto di essere fiera dei risultati raggiunti con la squadra e molto contenta dell’esperienza vissuta all’interno del club – «Non ho mai vissuto episodi di razzismo nella Juventus» – ma non altrettanto della sua permanenza in Italia. «Tante volte arrivi all’aeroporto e i cani antidroga ti fiutano come se fossi Pablo Escobar», scrive ancora la calciatrice di origine nigeriana ma naturalizzata britannica. «C’è un problema in Italia e nel calcio italiano ed è la risposta che viene data che mi preoccupa, dai proprietari dei club ai fan del calcio maschile che sembrano accettare [il razzsimo, ndr] come parte della cultura del tifo». «Credo di aver raggiunto dei grandi obiettivi a Torino. Ho vinto trofei importanti, ho fatto un sacco di goal, ho giocato allo stadio Allianz, ho imparato l’italiano e visitato il Paese. Ma adesso sono contenta di tornare a Londra», ha aggiunto.
La lettera di Aluko è un segnale preoccupante, di cui tutti dovremmo tener conto, perché individua dei problemi che effettivamente esistono nel mondo sportivo italiano e perché racconta, più in generale, le difficoltà che oggi affronta una persona con la pelle nera in Italia. Il calcio, in questo senso, è emblematico: l’ultimo caso è stato quello di Romelu Lukaku, il giocatore dell’Inter preso di mira da cori razzisti delle curve, ma era già successo con Kalidou Koulibaly del Napoli e Mario Balotelli. Come ha scritto Davide Coppo su Rivista Undici, «il problema del razzismo non è un problema esclusivo del calcio, né è il calcio la leva su cui si può spingere per superarlo: è un problema della società ed è un problema della politica, e se vogliamo allargare il campo ed essere un filo troppo cinici, è un problema che se non si risolverà intaccherà l’economia del Paese e ne ostacolerà lo sviluppo».
Il fatto che una campionessa decida di lasciare l’Italia dopo soli 18 mesi nonostante i tanti traguardi raggiunti ci dovrebbe far riflettere: non fa bene al nostro calcio femminile, un movimento che finalmente si sta consolidando e che ha bisogno di giocatrici e professioniste internazionali, che abbiano voglia di mettersi in gioco nel nostro campionato. E non fa bene all’Italia, alla sua immagine nel mondo e al suo futuro: non vogliamo essere un Paese da cui le persone scappano.