Un b&b o una villetta, una festa privata, musica e alcol: i sensi si assopiscono e i limiti diventano labili e interpretabili. È il “copione dello stupro” che va in scena sempre più spesso, come accaduto pochi mesi fa nella Capitale: la vittima è una 16enne che ha trovato il coraggio di denunciare la baby gang che l’ha assaltata. Ad accogliere la testimonianza della giovane al commissariato di Porta Pia c’era Evelina Compare, che di ragazze stuprate ne ha ascoltate tante quanti i “mostri” che ha contribuito a stanare. Ispettore capo della polizia di Stato ed esperta della Questura di Roma sul tema violenza di genere e domestica, Evelina, di origini beneventane, è una mamma di 47 anni, con un figlio di 14 e una di 13.
Come accoglie le parole, dolorose, delle giovani donne che subiscono uno stupro?
«Come una madre che sa come parlare ai figli quando deve farli aprire: con pazienza e dolcezza o si chiuderanno a riccio, senza giudizio morale. Con il distanziamento è più difficile ma in genere mi siedo accanto a loro, tengo le mani, parlo dolcemente. Non le spingo a denunciare ma a liberarsi di un peso. Così si sentono capite e accolte. Trovano l’affetto della loro stessa madre alla quale, però, non si sentono di fare del male confessando la violenza subita e della quale si sentono in parte responsabili».
La prima cosa che dice loro?
«Non è colpa tua: quasi tutte credono di essersi cacciate volontariamente in quella situazione, come le donne maltrattate dal partner che finiscono per credere di essere davvero delle nullità. Io dico alle ragazze che la voglia di divertirsi non può essere mai scambiata per disponibilità sessuale. Quando lo capiscono si sentono sollevate e parlare diventa più naturale».
Di cosa hanno paura?
«Temono la vittimizzazione secondaria, cioè il giudizio morale dei coetanei ma anche delle forze dell’ordine. Pensano: se vado a raccontare quello che mi è successo crederanno che sono una “leggerina”, diranno: “Non lo sapeva cosa poteva succederle?”. Ecco, io smonto questo pensiero. L’ho fatto persino quando mi sono trovata davanti una prostituta stuprata e rapinata: per me in quel momento era solo una donna violata».
Come riesce a entrare in empatia con le vittime?
«Non c’è una tecnica. Sono donna, sono del Sud, sorrido sempre. Il lavoro di rete con i colleghi e le altre istituzioni messo in piedi oggi in tutte le Questure per proteggere le vittime di violenza crea il giusto contesto. E mi sono allenata con una lunga gavetta all’ufficio denunce. La sera ero stanchissima ma arrivava sempre qualcuno a cui avevano rubato l’auto o il portafogli. Per me era l’ennesima denuncia, ma per loro era il mondo in frantumi. “Come faccio domani ad accompagnare mia figlia…”, “Avevo appena ritirato i contanti…”. Io consolavo, rassicuravo e loro tornavano a casa più tranquilli».
Con il programma “Scuole sicure” incontra i ragazzi: che metodi usa per far presa su temi come cyberbullismo e sexting?
«Non parlo al bullo ma al suo pubblico. L’ho capito quando un ragazzino, a proposito delle angherie subite sul gruppo WhatsApp di classe, mi disse: “Le 20 faccine che ridono mi fanno più male dell’insulto”. Se il bullo ha una platea alza il tiro, altrimenti si smonta».
«Quasi tutte credono di essersi cacciate volontariamente in quella situazione, come le donne adulte maltrattate dal partner. Io dico loro: la voglia di divertirsi non può mai essere scambiata per disponibilità sessuale»
Come affronta questi temi con i suoi figli?
«Nello stesso modo. E poi monitoro insieme al padre la presenza del grande su Instagram. TikTok, invece, è vietato: difficile da gestire e molto subdolo. Adesso vanno i video in cui ci si cambia d’abito velocemente e si resta in reggiseno e mutande, oro puro per i pedofili nel dark web. Quello che le ragazzine fanno spesso senza malizia finisce per alimentare il mercato del porno».
In 20 anni di servizio avrà ascoltato tantissime storie, quale più di altre conserva nel cuore?
«Quella di una donna ossessionata da un partner che la minacciava: ci inventammo un controllo dei registri contabili del loro albergo per andarla a prendere. Non dimenticherò mai il suo sospiro di sollievo dentro la volante con la quale la portammo in questura per convincerla a denunciare. E poi ci sono ragazze che ho aiutato e che incontro per strada: mi salutano con la gratitudine negli occhi. Una è venuta in commissariato a presentarmi il bambino avuto da una nuova relazione. Mi ha detto: “Se fosse stata femmina l’avrei chiamata Evelina”. È stato commovente».