Il social network Facebook nella bufera. Sono ben 50 milioni gli utenti Facebook negli Stati Uniti dei cui dati personali la Cambridge Analytica è entrata in possesso per poi usarli a scopi politici. In particolare, è emerso che la società britannica, di cui faceva parte l’ex stratega della campagna elettorale di Donald Trump, Steve Bannon, aveva usato le informazioni, inviando poi messaggi populistici e mirati a fini elettorali, proprio in occasione delle presidenziali che hanno portato alla vittoria di Trump, allo scopo di contribuire al successo del candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Lo scandalo, esploso in America dopo le rivelazioni della “talpa” Chris Wylie, rischia però di avere ripercussioni anche in Europa e ha creato allarme in tutti coloro che usano Facebook, anche nel nostro Paese: “La gente fa sicuramente benissimo a essere preoccupata: i social sono strumenti eccezionali non solo per comunicare con amici e parenti, ma soprattutto per fare business e marketing, così come può esserlo la tv. Tutto dipende da come vengono usati. Ad allarmare, però, dovrebbe essere il fatto che sono tutti di origine statunitense, tutti di multinazionali quotate in Borsa a New York e che dunque hanno come obiettivo quello di massimizzare i propri profitti, non di rendere “felici” le persone come pure è dichiarato negli intenti di Facebook” spiega a Donna Moderna Andrea Albanese, docente universitario ed esperto di Social Media.
Come Facebook usa i nostri dati
Facebook è un social media che conta 2,3 miliardi di utenti: “E’ chiaro che chiunque voglia fare comunicazione e marketing, per vendere prodotti o influenzare l’opinione delle persone, passerà senz’altro da questo social – premette Albanese – Esistono strumenti che permettono di attingere tutti i dati degli utenti, sia perché ne sono partner (WhatsApp, Messenger e Instagram appartengono tutte a Fb), sia perché hanno siglato accordi in tal senso con il colosso social”.
“Si tratta di realtà che entrano in possesso di queste informazioni, con un accesso spesso a livello “profondo” tramite tools, strumenti che permettono di conoscere la vita delle persone e dunque di fare attività di profilazione“. Questa consente di individuare profili di utenti e realizzare campagne pubblicitarie mirate in base ai gusti delle persone, alle abitudini e stili di vita, all’età, al ceto sociale o alla formazione culturale che queste hanno, o ancora al luogo in cui risiedono.
“Non c’è da stupirsi, dunque, che questi dati siano stati utilizzati anche a scopi politici – aggiunge l’esperto – L’errore sta nel modo di intendere la privacy: si pensa ancora che esista la proprietà dei propri dato, non è così e non solo con Facebook. Basti pensare all‘IMEI del proprio cellulare” dice albanese. Si tratta dell’acronimo di International Mobile Equipment Identity, un codice di 15 cifre che consente di identificare i telefoni cellulari in modo univoco: questo fornisce una moltitudine di informazioni sul proprietario, per cui “non è più importante sapere il nome e cognome delle persone, quanto piuttosto il loro profilo” spiega ancora il docente.
Privacy, i consigli dell’esperto
Ma allora come difendere, almeno in parte, la propria privacy? Esistono tre accorgimenti per limitare un accesso incontrollato ai propri dati da parte delle società titolari della App:
1) “Ricontrollare le impostazioni relative alla privacy ogni volta che si scarica una App nuova o che si procede a un aggiornamento, anche se automatico: in questi casi, infatti, si riparte ‘da zero’, dunque con i parametri iniziali, che non tengono conto delle impostazioni che erano state precedentemente scelte” spiega Albanese;
2) “Disabilitare le geolocalizzazione: è sufficiente selezionare l’opzione che nega la georeferenziazione, senza la quale molte funzioni social non sono possibili, ma che permette di non fornire indicazioni sui luoghi nei quali ci si trova. Se si vuole usare, ad esempio, Google Maps, è possibile abilitare la funzione per il tempo che serve, durante un viaggio o uno spostamento, per poi disabilitarla nuovamente” consiglia l’esperto;
3) “Usare i social con serenità: allarmarsi eccessivamente non serve, occorre piuttosto essere consapevoli di cosa questo comporta. E’ inutile demonizzarli: meglio usarli per ciò che ci sono utili, senza dimenticare che qualcuno potrebbe usare le informazioni su di noi per scopi politici o commerciali” conclude Albanese.
Ogni attività è “osservata”
Qualsiasi attività venga compiuta tramite i social network è in qualche modo oggetto di “osservazione”: i click, i like o le conversazioni sono strumenti per conoscere le attività di potenziali destinatari di messaggi, ma non solo. “Basti pensare che Facebook, alla sua nascita, era partecipata dalla Cia, i servizi segreti statunitensi. Il social viene usato per conoscere le conversazioni globali: si tratta di una gigantesca operazione di controllo e gestione, nelle mani di una società statunitense. Non a caso la Cina vieta l’uso di Facebook per non consentire di trasferire dati realtivi ai propri cittadini ai server statunitensi. In questo senso l’Europa e l’Italia, con le loro normative sulla privacy, sono molto penalizzate: le imprese europee e italiane sono ancora costrette a far firmare moduli di carta a mano, mentre i social (tutti statunitensi) attingono informazioni in modo quasi illimitato – spiega Albanese – Per questo penso che l’Unione europea dovrebbe pretendere di avere propri sviluppatori all’interno dei team dei social, per conoscere l’algoritmo con cui vengono fatte relazionare le persone e come vengono i nostri dati”.