«Quattro anni fa, nel giro di 2 mesi, mi sono ritrovata senza più lavoro e senza fidanzato. In più, il contratto di docenza che avevo all’università di Modena non è stato rinnovato e mio padre, malato di Alzheimer, ha iniziato ad aggravarsi. Pensavo che fosse il periodo peggiore della mia vita, ma oggi, al contrario, ritengo quegli avvenimenti positivi. Perché mi hanno costretto a ridefinire i miei desideri e a iniziare la vita che volevo».
Francesca Corrado e la scuola di fallimento
Francesca Corrado, 38 anni, un passato da ricercatrice in Economia, è la prova che dopo aver sperimentato una caduta ci si può rialzare più forti di prima: nel 2017 ha ideato la prima Scuola di Fallimento in Italia, dove si insegna a trarre profitto dagli errori. E ora pubblica un libro, “Elogio del fallimento” (Sperling&Kupfer), in cui riassume la sua esperienza.
Uno degli slogan della Scuola è: “Osa perdere per vincere”. Come lo insegnate in concreto? E a chi?
«I nostri corsi sono diretti a studenti, aziende, giovani inoccupati o disoccupati. Analizziamo il modo in cui queste persone tendono a prendere le decisioni sul lavoro: per esempio, se usano più motivazioni razionali o emotive; se associano all’errore il senso di colpa o la vergogna; se hanno fallito perché non accettano di modificare le loro idee o perché mollano troppo presto. Da qui, tramite simulazioni e giochi di ruolo, deduciamo come possono “resettarsi” e rivedere le cadute del loro percorso».
Lei come ha reagito al suo “annus horribilis”?
«All’inizio mi sono sentita sfortunata e vittima della cattiveria altrui, dal fidanzato alle socie con cui condividevo un progetto di lavoro, uno “spin off” universitario dedicato al benessere».
Ma poi…
«Poi mi sono spostata da Modena, dove vivevo, a Crotone, dove abitava mio padre. La sua malattia mi ha fatto deviare il rimuginio automatico sulle mie sfortune per chiedermi se invece non avessi commesso io degli errori. Per esempio, sui miei obiettivi. Nei 5 anni precedenti avevo lavorato tanto, senza interrogarmi se stessi facendo quello che mi appassionava. Finché mi sono resa conto che, per andare d’accordo con le mie socie, tendevo a reprimere le mie idee e non ascoltare i segnali che mi inviava il mio corpo».
Quali segnali?
«Quelli che ti rivelano il dissidio tra i tuoi desideri e la realtà: l’incapacità di dormire, il mal di pancia e gli atti mancati… Ho consegnato la domanda di dottorato 3 minuti dopo la scadenza: il mio corpo ha “rallentato” la corsa per evitarmi la consegna. Alle donne capita spesso di non ascoltarsi: siamo abituate a mostrarci educate, a non dare fastidio, a non anteporre le nostre ragioni a quelle altrui. L’insegnamento familiare non aiuta: i genitori incoraggiano i maschi a fare giochi rischiosi, mentre invitano noi a non buttarci e a temere l’errore. Di conseguenza, valutiamo lo sbaglio non come un incidente, ma come un giudizio: noi non diciamo “Ho fallito in qualcosa” ma “Sono una fallita”».
Come si cambiano le cose?
«Stimolando già dalla scuola un contesto in cui l’errore è visto come uno strumento di apprendimento e di miglioramento, come un modo in cui la vita ci fa sapere che stiamo andando fuori rotta. Ed evidenziando i meccanismi involontari. Per esempio, la critica femminile è quasi sempre identitaria. In pratica, invece di dare un feedback sul merito, noi donne critichiamo con generalizzazioni tipo “Tu fai sempre così”. In compenso gli uomini, che prendono gli smacchi come meri incidenti di percorso, ottengono feedback costanti sulle loro prestazioni, aumentando così le informazioni su come muoversi e facendo carriera».
Le aziende non sembrano luoghi che apprezzano il fallimento
«Sì, ed è un problema culturale: negli Usa il fallimento è ritenuto una tappa necessaria per il successo. In Italia perfino per le società si è sostituito questo termine con “liquidazione giudiziale”: dovrebbe limitare il discredito, che però resta nella mentalità. In azienda, allora, può servire introdurre il “fallimento intelligente”: si progettano tanti piccoli flop per correggere progressivamente il tiro. Un buon esperimento non è quello riuscito, ma quello congegnato in modo tale che, comunque vada, fa imparare».
Lei ora come gestisce il fallimento?
«Invece di affliggermi perché ho sbagliato, cerco di sfruttarlo a mio vantaggio».
Ci fa un esempio concreto?
«Tre anni fa avevo degli schemi mentali su cosa deve fare e come dev’essere l’uomo per me: escludevo quelli vestiti troppo sportivi, i non bellocci, quelli bassini. Pensavo di volere un “maschio alfa” e mi ritrovavo sempre delusa dalle debolezze dei miei compagni. Una sera a un evento ho incontrato una persona che “la vecchia me” non avrebbe mai considerato. Ho provato a sospendere il giudizio e a godermi solo la sua simpatia. E così pian piano ho scoperto che scambiavo la prepotenza per forza, l’invidia per concretezza e che in realtà la persona ideale per me era l’opposto di quello che cercavo. Il finale? Oggi io e lui conviviamo».