Sono passati 18 anni, ma nonostante i farmaci equivalenti siano diventati “maggiorenni”, stentano ancora ad imporsi sul mercato italiano. Nel nostro Paese si è disposti a spendere oltre 1 miliardo 100 mila euro in più pur di acquistare quelli “di marca”. Secondo un’indagine dell’Osservatorio Gimbe appena pubblicata, il 70% della spesa sanitaria di ogni italiano è dovuto alla preferenza per i medicinali con un brand “famoso”, mentre solo il 30% è dovuto alla quota fissa del ticket.
L’Italia, secondo l’Ocse Italia, si colloca al penultimo posto su una lista di 27 Paesi presi in esame. Colpa della resistenza e della diffidenza ad affidarsi agli equivalenti, che non è stata superata neppure quando, nel 2005, l’Agenzia italiana del Farmaco ha deciso di cambiare la denominazione, preferendo quella di “equivalente” a quella di “generico”, proprio per indicare come questi farmaci siano del tutto corrispondenti a quelli di marca, sia nel dosaggio che nella presenza di principio attivo. Eppure a invogliare al loro acquisto non è bastato neppure il prezzo, spesso di molto inferiore (anche del 20%).
Perché non si acquistano gli equivalenti?
“A parte un’iniziale diffidenza da parte del consumatore, bisogna tenere presente che esiste una forte reticenza soprattutto da parte dei pazienti più anziani, che sono poi anche quelli che hanno maggiormente bisogno dei farmaci e spesso sono malati cronici, quindi hanno bisogno di prendere con regolarità le loro pastiglie. Questo perché si abituano a un certo medicinale, al colore e alla forma della scatola o delle compresse, e sono poco propensi a cambiare” spiega Claudio Alberto Cricelli, presidente della Simg (Società italiana di medicina generale).
Un altro elemento è la vasta disponibilità di farmaci generici: “Possono essercene anche 150 equivalenti, ma un farmacista – specie se piccolo – ne terrà solo 2 o 3. Se quello usato abitualmente dal paziente non è tra questi, dovrà prenderne un altro, controvoglia. Oppure dovrà cercare in un’altra farmacia, ma se è anziano lo farà con ancor meno disponibilità e possibilità di movimento. Ecco che allora preferirà il prodotto “di marca”, che è pressoché sempre presente in tutti i punti vendita, anche perché è interesse del farmacista averlo disponibile, visto che permette guadagni maggiori” spiega Cricelli.
“Finché si tratta di prodotti comuni, come il paracetamolo, il fatto di cambiare può non creare grandi disagi, ma quando si parla di farmaci per la pressione o per il colesterolo, che vanno assunti con regolarità, il paziente preferisce rimanere fedele a un prodotto, a una confezione e persino allo stesso colore della pastiglia. Diverso il discorso per il consumatore più giovane o disposto non solo a usare prodotti diversi, ma anche a muoversi per trovare quello che gli permette di risparmiare”.
Dove ci si fida di meno?
I più restii a chiedere al farmacista un farmaco equivalente, secondo il report integrando il Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti con i dati Osmed 2018, si trovano al centro-sud. Nel Lazio, in particolare, si è disposti a spendere fino a 24,7 euro in più pro capite all’anno per avere un prodotto “griffato”, in Sicilia 24,2€, in Calabria 23,6€, in Campania 23€, in Basilicata 22,1€, in Puglia 21,9€, in Abruzzo 21,5€ e in Molise 21,3€.
C’è una diversa quantità di principio attivo?
A caratterizzare i farmaci equivalenti, oltre al minor prezzo dovuto al fatto che non sono coperti da brevetto originale, è anche il loro nome. Invece che utilizzare denominazioni di fantasia, sono individuati da quello del principio attivo. La sua quantità, però, non cambia, così come il dosaggio. La legge prevede che un generico possa avere quantità di principio attivo del + o – 20% rispetto al farmaco di riferimento (si parla di biodisponibilità): “Una forbice che non ha alcun effetto in termini di maggiore o minore efficacia. Basti pensare che la pasticca per curare pressione o il colesterolo è la stessa e va assunta con lo stesso dosaggio in chi pesa, ad esempio, 60, 70, 80 o 90 kg. I farmaci sono testati su campioni di popolazione ampi, con pesi ed etnie diverse, e deve funzionare a prescindere dalle differenze, sia su un paziente europeo, che asiatico o americano”
A fare la differenza sono gli eccipienti?
“Gli eccipienti più comuni sono talco, mannosio o altre sostanze totalmente inerti, senza alcun effetto terapeutico. Sono anch’essi sottoposti a controllo dell’AIFA. Pensare che facciano la differenza significa dire falsità” spiega l’esperto.
Chi può consigliare il generico per legge?
Ma il medico di base o il farmacista possono consigliare un farmaco di marca o un generico? La legge prevede che il medico indichi il nome del principio attivo del medicinale, la prima volta che lo prescrive, con o senza nome del farmaco, equivalente o originale. “Ormai le ricette sono scritte a computer e, inserendo il nome del principio attivo, il programma fornisce la lista dei farmaci. Se il medico ritiene che il suo paziente debba usare un determinato tipo di medicinale, per motivate ragioni cliniche, lo deve spiegare al proprio assistito e aggiungere nella ricetta la dicitura ‘non sostituibile'” Spiega Cricelli. Il farmacista è tenuto a informare i cittadini sempre dell’esistenza di un farmaco generico nel caso in cui ne sia richiesto uno originale. “L’ultima parola, però, spetta sempre e comunque al paziente che può scegliere liberamente” conclude il presidente della SIMG.