Quando, poche settimane fa, la notizia del premio Nobel per la Medicina è arrivata all’Università dell’Insubria, la voce si è sparsa in un attimo. Da queste parti David Julius, lo scienziato americano che insieme al collega Ardem Patapoutian ha ottenuto il riconoscimento per la scoperta dei recettori del tatto, è uno “di casa”. I laboratori di Fisiologia di questo ateneo sono tra i pochi al mondo a utilizzare le sue tecniche e proprio da lui hanno ricevuto materiale genetico per i progetti in corso.
«Per noi questo Nobel significa molto» mi spiega Elena Bossi, presidente del corso di studio di Biotecnologie all’ateneo lombardo. «Non è solo un riconoscimento indiretto al nostro lavoro. Premia tutte le ricerche di base che ai più non dicono nulla ma aprono per la medicina scenari incredibili. Grazie ai due Nobel domani potremmo trovare nuove cure per milioni di persone che soffrono di dolore cronico» racconta con un filo di soddisfazione questa ricercatrice. Cinquantaquattro anni, una vita spesa tra famiglia e microscopio, la dottoressa Bossi ha una grande passione per lo sport (è un’ex atleta di sci di fondo) e per la scienza. A entrambi si dedica con la costanza e il rigore necessari a ottenere grandi risultati. Insieme a colleghi di tutta Europa segue ricerche sulle trasmissioni nervose e con il suo team, quasi completamente femminile, coordina un importantissimo progetto sui recettori del dolore.
In tanti si aspettavano che il Nobel andasse agli scienziati che hanno messo a punto i nuovi vaccini a Rna messaggero contro il Covid.
«Vede, dietro tutte le grandi scoperte che ci hanno cambiato la vita ci sono anni di studi in laboratorio, che nel momento in cui sono stati fatti potevano non sembrare così fondamentali. E anche la storia dei vaccini a Rna messaggero di cui ora si parla tanto lo dimostra. Le spiego in poche parole perché. Alla fine degli anni ’50 un altro premio Nobel, John Gurdon, intuì che inserendo l’Rna di un organismo in una cellula era possibile dare a questa stessa cellula un’istruzione, affinché generasse una proteina. All’epoca qualcuno si chiese a cosa potesse mai servire far sviluppare alla cellula una proteina che non era sua. Invece, oggi quella stessa scoperta si è rivelata fondamentale per il meccanismo con cui funzionano i vaccini: “fabbricare” la proteina Spike del Covid 19 e poi produrre gli anticorpi. Ma non solo: è la stessa tecnica che utilizziamo noi in laboratorio per produrre in vitro i recettori del dolore e studiarli».
Parliamo di questi recettori, allora: i due Nobel sono stati premiati perché hanno individuato quelli che regolano la percezione del freddo, del caldo e della pressione. Ma questo dove ci porterà?
«Ci aiuterà a capire meglio i meccanismi che regolano il dolore e a bloccarlo con nuovi farmaci. Noi, per esempio, partendo dagli studi del professor Julius, abbiamo individuato alcuni recettori responsabili del dolore cronico. Sono sensori delle cellule che trasmettono al cervello la percezione di fresco e di pressione e, oltre un certo livello, quella di sofferenza. Se li spegniamo togliamo il male».
Cosa c’entrano dolore e temperatura?
«Ha presente quando mette la mano sotto un getto di acqua gelata? Per prima cosa sente freddo, poi avvertirà dolore».
E tutto questo come può collegarsi con nuove cure?
«Analizzando i tessuti nervosi di persone che soffrivano di problemi lombari, abbiamo visto che nelle aree interessate dalla patologia i sensori sono molto più numerosi, fino a 100 volte di più. Abbiamo capito anche che ciascuno di noi può sviluppare recettori diversi, perfino a seconda dello stile di vita. E se prendiamo due persone che hanno lo stesso mal di schiena, possono presentare recettori diversi o mutazioni dello stesso recettore. Mettendo insieme tutti questi tasselli, domani, prelevando piccole parti di tessuto e analizzandole, potremo sapere quali farmaci somministrare a ciascun paziente, bloccare solo i recettori del dolore che esprime lui».
Sembra fantascienza…
«Non è un futuro così lontano. Ci sono diverse sperimentazioni in tutto il mondo. La sfida ora è trovare la molecola giusta e fare in modo che agisca solo nell’area interessata. Con alcune tecniche ci si può riuscire, penso alle nanotecnologie».
Quali malattie si potranno curare con questa medicina del dolore personalizzata? Artrosi e reumatismi?
«Sì, certo. Sicuramente a beneficiarne sarà chi soffre di patologie a livello muscolo-scheletrico. Ma le prospettive di cura sono infinite, e non solo contro il dolore: perché i recettori, che sono proteine, sono coinvolti anche in altre funzioni dell’organismo. Le faccio un esempio: l’altro progetto di questa università legato agli studi del professor Julius ha evidenziato che il recettore Trpv4 ha un ruolo positivo anche nel funzionamento del sistema linfatico, è capace di farlo pompare correttamente. Un domani, potenziandone la funzione, si potrebbe prevenire per esempio la formazione degli edemi dovuti agli interventi chirurgici. Non dovremmo in questo caso bloccare il recettore ma, al contrario, farlo lavorare al meglio».
Serviranno molte altre ricerche per arrivarci?
«Il percorso è tracciato ma servono risorse. Spesso è difficile trovare fondi per portare avanti studi come questi, se l’obiettivo e i risultati non sono immediati. I finanziatori preferiscono investire in progetti che danno maggiore risonanza. Ma chissà, magari questo Nobel renderà le cose più semplici».
Una ricerca rivoluzionaria
Lo hanno chiamato il “Nobel delle carezze” perché il premio dedicato alla medicina quest’anno è andato a due scienziati che hanno svelato i segreti del tatto. Prima delle scoperte di David Julius e Ardem Patapoutian, sapevamo che il tatto ci fa “sentire” caldo, freddo o stress meccanici ma i due ricercatori hanno rivelato i meccanismi che regolano questi processi. E disegnato la mappa dei recettori, cioè dei canali che trasmettono le diverse percezioni al nostro cervello. Ci sono riusciti isolandoli in laboratorio, nelle cellule in coltura. Julius li ha stimolati con la molecola del peperoncino, finché non ha trovato quello che reagisce al caldo: lo ha battezzato Trpv1.Patapoutian ha invece isolato Piezo 1 e Piezo 2, recettori di un’altra “famiglia”: sono quelli che hanno il compito di comunicare le pressioni subite dai tessuti.