Ogni anno più di 71.000 coppie italiane vanno in pellegrinaggio tra gli ospedali per realizzare il sogno di diventare genitori mediante tecniche di fecondazione assistita. Il Censis le ha appena fotografate: i partner hanno tra i 36 e i 40 anni, un lavoro, cercano un figlio da 4 anni. Le loro storie sono accomunate in tanti casi da successi, ma più spesso da tentativi andati male e paure.
«Di fecondazione in Italia si parla solo quando la cronaca accende i riflettori» dice Eleonora Mazzoni, una vita da attrice e ora in libreria con il saggio In becco alla cicogna (Biglia blu). «È un percorso con molti ostacoli. Spesso alle coppie che si sottopongono ai trattamenti i medici trasmettono un falso senso di onnipotenza. Io sono diventata mamma alla quarta volta, per me è stato uno shock passare da un fallimento all’altro e ricominciare a sperare in una gravidanza». Le criticità della “provetta” sono ancora tante nel nostro Paese e non sono solo legate all’eterologa, ovvero la possibilità di avere un figlio con il seme o l’ovulo di un’altra persona (legale in Italia dopo le modifiche della legge 40). I risultati scarsi e i costi dei centri privati riguardano anche le coppie che tentano l’omologa e l’inseminazione.
Ecco 4 “non-detti” sul percorso di Pma (procreazione medicalmente assistita) che gli aspiranti genitori dovrebbero conoscere.
1. L’eterologa si può richiedere solo in 4 ospedali su 369.
Sono passati più di 2 anni dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha dato il via libera alla fecondazione eterologa, ma il percorso resta una corsa a ostacoli. Su 369 centri pubblici e privati di Pma, solo 4 ospedali la effettuano al costo del ticket: il Careggi di Firenze, il Sant’Orsola di Bologna, l’Ospedale di Cattolica (Rimini) e quello di Pordenone. «Perciò le liste di attesa si allungano: qui si aspetta un anno per la prima visita» spiega Elisabetta Coccia, direttore del Centro Pma del Careggi. «Il problema è sempre lo stesso: mancano i donatori di ovuli e spermatozoi, quindi ricorriamo alle banche estere. Questo ha rallentato i tempi perché sono servite gare d’appalto e contratti per iniziare. Due terzi delle Regioni non hanno ancora recepito il documento Stato-Regioni sulla pratica e molte strutture sono ferme». Così aumentano del 25% i viaggi verso le città italiane che la fanno: se prima la meta era l’estero, ora si va in Toscana ed Emilia Romagna. A salire è anche l’età delle donne. «Più del 30% delle mie pazienti ha superato i 40» conclude Coccia. «Così le percentuali di successo si fermano al 10%».
2. Non esiste un protocollo unico: ogni centro segue un iter diverso.
La mancanza di linee guida comuni rende il ricorso alla provetta un piccolo Far West. Spiega Andrea Borini, presidente della Società italiana di fertilità e sterilità: «Le linee guide del ministero della Salute si occupano solo di dettagli burocratici e amministrativi. Molti ospedali seguono percorsi certificati dalle società scientifiche internazionali ma le patologie sono complesse ed è difficile racchiudere tutto in uno schema». Ecco perché diventa fondamentale la trasparenza: ogni centro dovrebbe pubblicare sia i risultati ottenuti sia le tecniche usate, invece per ora rendono note solo quest’ultime nel Registro nazionale Pma.
Invece è importante chiarire, per esempio, che un’inseminazione semplice ha il 10% di possibilità di successo, mentre con Fivet o Icsi (l’incontro tra ovulo e spermatozoo in vitro) si supera il 19%, ma queste ultime tecniche sono più complesse e rischiose. «Non esiste un iter standard per tutti» conferma Arturo Viglione, ginecologo privato di Barga (Lucca) che ha ottenuto molte gravidanze naturali con donne che venivano da tentativi falliti di Pma (solo il 55% delle coppie ha una diagnosi precisa, secondo il Censis). «Da me arrivano pazienti che ignorano la causa della loro sterilità» spiega il medico. «Io seguo il protocollo della prestigiosa scuola di medicina americana Johns Hopkins, che prevede 2 mesi di test come quello post coitale, la valutazione della maturazione endometriale e l’isterosalpingografia radiologica». Esami non previsti da tutti i centri, appunto perché non esiste un protocollo diagnostico unico.
3. Non si fanno sufficienti esami e controlli medici sugli uomini.
In 4 storie su 10 l’infertilità è legata al maschio. Eppure, mentre le donne vengono controllate scrupolosamente, il partner rimane dietro le quinte. «I dati dicono che l’uomo è sottoposto a una valutazione accurata solo 2 volte su 10» nota Edoardo Pescatori, specialista in Andrologia e urologo all’Hesperia Hospital di Modena. «Quasi tutti i centri di Pma hanno un referente andrologo, ma viene coinvolto pochissimo. Eppure basterebbe una ecografia per scoprire un varicocele, che si risolve con un piccolo intervento». Allora perché ci si dimentica dell’universo maschile? «A volte è una questione di interessi» ribatte l’esperto. «Le strutture in cui si fa la fecondazione sono guidate da ginecologi e intorno a questa specialità ruotano più investimenti dell’industria farmaceutica, risorse e ricerche maggiori». Ma spesso puntare solo sulla donna ha anche una ragione statistica: le tecniche in vitro come Fivet e Icsi, che costringono la donna a un percorso più impegnativo, portano più facilmente alla gravidanza. Ma il costo emotivo e fisico è altissimo.
4. La Pma può diventare una droga: non c’è un limite al numero di tentativi.
Quante volte ci si può sottoporre alla fecondazione assistita? Anche in questo campo ogni centro di Pma pone i suoi limiti, spesso solo di “anzianità” quando si superano i 40 anni. Ma nulla vieta alle coppie di rivolgersi a più centri, italiani ed esteri, e aggirare i divieti. «La fecondazione assistita inizia con un lutto perché il bimbo tanto desiderato non arriva» spiega la psicoterapeuta Amalia Prunotto, che ha ideato il progetto “Quando la cicogna smarrisce la rotta”, una serie di incontri negli ambulatori di varie città italiane (informazioni sulla pagina Facebook del progetto). «Poi si inizia la Pma e si prova un’altalena di emozioni destabilizzante: l’inadeguatezza, la solitudine perché si ha vergogna di parlarne, la paura di fallire. Entrambi i partner vivono il dramma come proprio e non come della coppia. Visite ed esami invasivi prendono il sopravvento e schiacciano lavoro, amicizie e intimità. La legge 40 prevede il sostegno psicologico che, però, rimane una chimera».
Lo sa bene Eleonora Mazzoni, autrice del saggio In becco alla cicogna. «Ogni giorno ricevo lettere di decine di donne che hanno letto il mio libro e mi confessano il loro dolore. La fecondazione assistita per molte diventa un’ossessione, i tentativi sono droga di cui non riesci più a fare a meno. E intorno a te c’è il vuoto perché sull’argomento regnano troppi pregiudizi. Chi prova sulla sua pelle questa esperienza ha bisogno di aiuto e di condivisione». Non a caso i forum e le chat su questo tema sono gettonatissime: il web diventa la piazza virtuale dove cercare consigli e sentirsi meno sole. Spesso, anche l’unico luogo dove “disintossicarsi” leggendo le storie degli altri e raccontando la propria.