«Alla fine il Comune di Ostia è stato sciolto. Per mafia. Ma nel 2013, quando per prima ho usato questa parola per denunciare il malaffare del mio quartiere sulle pagine de la Repubblica, sono stata travolta da minacce di morte, querele, insulti, tentativi di delegittimazione. Così, oggi vivo la notizia come un grande successo: la chiusura del cerchio di una denuncia portata avanti con la penna e tanta ostinazione». Al telefono, Federica Angeli, 39 anni, giornalista e madre di 3 bambini, contiene i toni, ma non nasconde la soddisfazione. «Sono in vacanza, per ora mi godo lo spettacolo da lontano» dice.
Questa donna, dallo sguardo tagliente e senza sorriso, non ha una vita normale. Non più: è sotto scorta dal 16 luglio 2013, dopo le intimidazioni ricevute dalla mafia. «Tutto spazzato via quella notte d’estate.La quotidianità del lavoro, la spensieratezza, la possibilità di uscire da sola perfino sul balcone di casa. Da 2 anni non guido la macchina e non salgo su quella di mio marito, non faccio una passeggiata a piedi o in bicicletta, non entro in un bar o dal parrucchiere se non preceduta e seguita da 4 carabinieri… Non ho più un minuto per me. Di solitudine, di libertà».
Quella notte che cosa era successo? «Sono stata testimone di una rissa tra due famiglie mafiose. Ho sentito delle urla, due spari e mi sono affacciata. Ho riconosciuto i criminali grazie agli articoli che avevo scritto e subito ho chiamato le forze dell’ordine per denunciare chi e che cosa avevo visto: nomi e cognomi. Poi ho raccontato la vicenda sulle pagine del mio giornale. La risposta è arrivata 6 ore dopo, anonima: “Morirai sotto casa”. Si è aperto così il mio conto con la mafia di Ostia».
Tu avevi già fatto inchieste toste, infiltrandoti perfino tra la criminalità albanese. Non avevi ricevuto minacce prima? «Le intimidazioni, soprattutto su Facebook o gridate per strada, sono il mio “pane quotidiano”, ma mai avrei immaginato di finire sotto scorta».
Perché non te ne sei andata da Ostia? Hai 3 bambini piccoli… «Se c’è qualcuno che se ne deve andare, non sono io. Sono nata e cresciuta qui e il fastidio di incontrarci sotto lo stesso cielo deve essere reciproco: i mafiosi esistono, ma ci sono anch’io. E faccio solo il mio mestiere. Però dalla parte della legalità, senza piegarmi alle minacce. Mi piace l’idea di insegnare questo ai miei figli: con l’esempio. Con il coraggio. D’altra parte, se la notte della sparatoria fossero stati adolescenti e uno di loro si fosse trovato in mezzo parcheggiando magari il motorino sotto casa, che cosa avrei potuto dirgli? “Mamma si è rimessa a dormire perché aveva paura?”. O “Tanto contro la mafia non si vince?”. Proviamoci! La partita è importante: se si vince, va bene per tutti. Dopo, ma solo dopo, potrei anche decidere di andarmene per riprendere un po’ di respiro: siamo molto provati».
Ecco: come vive tutto questo la tua famiglia? «Tocchi un nervo scoperto. Sapere che le mie scelte hanno delle ricadute sulle persone che amo è una cosa che mi lacera. Chi paga il prezzo più alto è mio marito, che teme per la mia vita e mi elenca ogni giorno, come un rosario, tutti i morti ammazzati, a partire da Falcone. I bambini, invece, non si rendono conto pienamente della situazione. Il grande ha 10 anni, la piccolina 5: anche se hanno visto le pistole, per ora non fanno domande troppo “difficili”. Però, la responsabilità mi pesa. Al punto che, spesso, avverto fisicamente un male alle spalle, ho la sensazione di portare su di me un carico enorme».
Non hai paura? «Certo! È umano averne. Ma non mi paralizza. Non mi fa dire “Adesso basta”. È una questione di Dna, forse. O vent’anni di cronaca nera, che mi hanno forgiata».
Davvero non c’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare? «Uno soltanto, l’anno scorso. Quando, un pomeriggio, mi hanno buttato litri di benzina attraverso la porta d’ingresso. Per fortuna ho sentito l’odore acre chiudermi la gola, ma, in quel momento, ho provato terrore puro. Per i bambini, più che per me. Poi però ho cercato di metterlo in un angolo e sono andata avanti. Come sempre, come un soldato».
Credi che oggi siamo a un punto di svolta sulle inchieste di Mafia Capitale? «Sì. Giuseppe Pignatone, il procuratore capo di Roma, non dà tregua ai clan: a Ostia, e non solo, si prepara un autunno caldo. Penso che si potrà brindare presto, ma non sarà facile e nessuno dovrà abbassare la guardia: la mafia ha mille teste e ancora mille appoggi. Basti pensare ai funerali di Vittorio Casamonica».
Lo conoscevi? «Era cugino degli Spada, il clan che mi minaccia. E so, come sapevano tutti, che era il capo di una famiglia di mafiosi che ha tra le attività principali lo spaccio. Nel loro quartiere hanno preso da anni il controllo di una strada comunale. L’hanno chiusa con una sbarra e hanno installato telecamere per individuare eventuali forze dell’ordine in avvicinamento e bruciare la droga prima del loro arrivo nei camini, accesi anche d’estate».
Come ti sei sentita davanti a quel funerale? «Profondamente offesa. Ho sacrificato la mia libertà per vedere queste persone girare liberamente e celebrare un mafioso in pompa magna? Sono indignata. Come donna, prima ancora che come cronista. Cosa può succedere ancora?».
Se potessi tornare indietro, sinceramente, rifaresti tutto? «Assolutamente sì. Tranne una cosa».
Quale? «Ricominciare a fumare dopo che ero riuscita a smettere per 7 anni».