Quando, qualche anno fa, si cominciò a parlare di lei e della sua sfida ai clan mafiosi di Ostia, il quartiere litoraneo di Roma dove ancora oggi vive sotto scorta, Donna Moderna le chiese di raccontarsi. E la storia della cronista Federica Angeli è diventata un capitolo del libro “Donne come noi” (qui puoi scaricare l’audiolibro).
Oggi è il cinema a riproporre questa vicenda: il 6 giugno esce nelle sale “A mano disarmata”, per la regia di Claudio Bonivento, con protagonista Claudia Gerini.
Il film riparte da “quel” maledetto giorno del 2013: è maggio e Federica, che si occupa di cronaca nera e giudiziaria per il quotidiano la Repubblica, sta percorrendo le spiagge di Ostia per lavorare a un’inchiesta sul racket degli stabilimenti balneari. Viene presa, sequestrata per diverse ore e minacciata di morte da alcuni esponenti del cosiddetto clan Spada. Li denuncia. Due mesi dopo assiste dalla finestra di casa a una sparatoria tra la famiglia Spada e i rivali Triassi. I vicini serrano le tapparelle, lei torna a denunciare, unica testimone, e pubblica la sua inchiesta. Da allora vive sotto scorta a causa delle continue minacce contro di lei e i suoi 3 figli, mai cessate. Nel frattempo ci sono stati i processi: l’ultimo vede ancora imputati il capoclan Armando Spada e l’ex funzionario del municipio di Ostia Aldo Papalini, già condannati in primo grado in un procedimento parallelo.
Parliamo con Federica mentre è costretta a letto: è stata tamponata malamente mentre era in macchina. «Un incidente? E chi lo sa?» dice, con quel dubbio quotidiano con cui deve convivere da 6 anni. «”A mano diasarmata” è tratto dal libro che ho scritto sulla mia vita. Mi sono fatta convincere perché mi ritrae per quella che sono: una donna qualsiasi, come tante. Gli eroi non mi piacciono, io mi disperavo e ho avuto degli attacchi di panico, e al cinema si vede. Ho pensato che poteva essere un messaggio potente per la gente normale come me: se Federica denuncia la mafia e ce la fa, possiamo farcela anche noi».
Ripercorrere la sua storia attraverso il film, spiega, è stato come guardarsi in uno specchio. Quasi una catarsi. «Ho pianto tantissimo, molto di più di quando vivevo quelle cose. I momenti peggiori? Tanti. Il sequestro, chiusa in quella stanza con gli Spada. Il senso di tristezza e solitudine che ho provato quando mi hanno assegnato la scorta, e quella volta che ero sola in casa coi bambini, in cui mi versarono la benzina sotto la porta. E poi le discussioni con mia sorella, che era terrorizzata. Hanno dato fuoco alla sua macchina, a quella del mio avvocato e anche all’unico ristorante di Ostia dove potevo andare a cena».
Il rapporto con Claudia Gerini, che le presta il volto, «è stato subito d’amore. Ha scelto di passare molto tempo con me, osservando come mi comportavo in casa coi bambini e con mio marito, e come lavoravo. Ci siamo capite e lei si è immedesimata tantissimo, soprattutto come madre. Mi diceva: “Non so come hai fatto, al posto tuo non sarei stata capace di lottare tanto, avrei avuto troppa paura per i figli”. Nel film c’è una scena che mi ha colpita, in cui doveva firmare un verbale: non aveva mai visto la mia firma, eppure la sua era identica».
La stessa Gerini lo conferma, descrivendo Federica con grande affetto: «Mi sono riconosciuta in lei, è una persona straordinariamente forte. E anche io sono una donna d’azione, mi sento dalla parte dei deboli, detesto le ingiustizie. L’ho intuita, assorbita, ho cercato di capirla, e mi sono preparata a interpretarla semplicemente amandola». Entrambe, dicono, hanno imparato qualcosa l’una dall’altra. «Claudia è quel tipo di persona capace di sdrammatizzare i momenti difficili. Abbiamo pianto e riso insieme, mi ha insegnato che si può vivere con leggerezza».
Nel film vedremo anche Francesco Venditti nel ruolo di Massimo, il marito di Federica, che le è stato accanto durante tutta la vicenda e continua a vivere ad Ostia insieme a lei. «A mano disarmata è un film sulla mafia, ma i clan malavitosi appaiono pochissimo, perché il vero antagonista della storia è lui, mio marito» dice Angeli. «Mi sosteneva, ma nello stesso tempo cercava di farmi ragionare. Diceva che contro la mafia non si vince, che la nostra era una lotta impari e che avrei dovuto pensare al pericolo al quale esponevo i bambini. Io però continuo a credere che l’unico modo che ho per proteggere i miei figli sia denunciare, usando l’arma della legalità».