Alla cerimonia della settantacinquesima edizione dei Golden Globes, le attrici si sono presentate tutte in nero (e per solidarietà anche gli uomini), a sostegno delle vittime delle violenze denunciate in quello che è diventato lo scandalo Harvey Weinstein. Ma prima d’allora, Maryl Streep aveva rivendicato di combattere una “battaglia per le donne” nel botta e risposta a distanza con Rose McGowan, che la accusava di ipocrisia e di aver taciuto sulle molestie. L’attrice Premio Oscar ha invece spiegato di non essere stata a conoscenza del comportamento del produttore di Hollywood, esortando poi tutte le donne a combattere insieme per la tutela dei propri diritti. Parole che hanno riportato alla memoria lo slancio del femminismo delle origini. Oggi il tema è più che mai di attualità, come prova il fatto che proprio il termine di “femminismo” è stato scelto come parola dell’anno 2017 dal prestigioso dizionario americano Merriam-Webster. Ma ha ancora senso parlare di femminismo nel 2017?
“Femminismo” parola dell’anno 2017
Come spiegato dal dizionario statunitense Merriam-Webster, le ricerche sul termine “femminismo” quest’anno sono aumentate del 70%, con due momenti nei quali si è assistito ad un vero e proprio boom: la prima volta a fine gennaio, in occasione della marcia delle donne, scese in strada con cortei sparsi in tutto il mondo per protestare contro l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, visto come immagine di un certo maschilismo e machismo considerati retaggio del passato; la seconda volta, invece, al momento dello scoppio dello scandalo Weinstein, con le accuse di molestie di decine e decine di attrici nei confronti del produttore cinematografico, diventato simbolo di quel tipo di uomo che abusa della sua posizione di potere o soggezione per ottenere favori sessuali in cambio della promessa di una carriera, soprattutto nel mondo dello spettacolo.
#MeToo
Non è un caso che la copertina del magazine Time di quest’anno (che in un primo momento sembrava potesse essere dedicata al presidente statunitense Trump) abbia avuto come protagonista il movimento #MeToo, considerato icona del femminismo 2.0. Si tratta dell’hashtag dellla campagna, lanciata via Twitter dall’attrice Alyssa Milano (co-protagonista della serie tv cult Le Streghe), con questa motivazione: “Se tutte le donne molestate sessualmente o violentate scrivessero Me Too come status, potremmo dare alle persone un senso della vastità del problema”. Nel giro di poche ore si osno registrate oltre 1,7 milioni di condivisioni e la mobilitazione ha ricevuto l’adesione di celebrities come Lady Gaga, ma anche e soprattutto molte donne normali, che hanno denunciato molestie non solo fisiche e sessuali, ma anche morali e psicologiche. La rivista statunitense, dunque, ha voluto premiare The Silence Breakers, le persone che hanno rotto il silenzio, denunciando soprusi nel mondo dello spettacolo, della politica e del lavoro in genere. Il successo dell’hashtag ha spinto a ripensare all’idea di femminismo, risvegliando il senso di solidarietà delle donne.
Il movimento in Italia: #QuellaVoltaChe
Anche nel nostro Paese è stato coniato un apposito hashtag, #QuellaVoltaChe, lanciato su Facebook da Giulia Blasi. La blogger e scrittrice ha esortato a dire “a tutti come vi siete sentire, cosa avete pensato, perché non avete parlato e, se avete parlato, cosa è successo poi”. In Italia il 25 novembre scorso è stata organizzata la grande manifestazione del collettivo Non una di meno contro la violenza maschile sulle donne. A tenere banco per qualche settimana c’è stato anche il caso Fausto Brizzi, con le denunce di alcune attrici in forma anonima, rivolte dalle telecamere del programma tv Le Iene. I loro racconti hanno spinto la Warner Bros, casa produttrice del suo ultimo film Poveri ma ricchissimi, a non associare il nome del regista de L’ultimo bacio all’attività promozionale della pellicola. Brizzi, pur smentendo ogni coinvolgimento, ha sospendendo ogni attività in attesa di far luce sulla vicenda per tutelare la famiglia.
La vera storia di #MeeToo
L’hashtag #MeeToo, diventato simbolo del moderno femminismo, è stato coniato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke nel 2006 per lanciare la sua campagna di aiuto alle donne, in particolare di colore, che come lei erano state vittime di molestie sessuali o abusi. Era un invito al mondo femminile a reagire e denunciare, che l’attivista all’epoca 44enne, nata e cresciuta nel Bronx, definiva “empatico”. Ora la donna, che sta lavorando a un documentario in uscita il prossimo anno, teme che il suo slogan rimanga legato alla cronaca e allo scandalo Weinstein, mentre “serve un lavoro dietro”, ha spiegato al Washington Post. Burke è infatti convinta che occorra supportare le donne, anche e soprattutto dopo le denunce. Di certo l’hashtag #MeToo è diventato la rappresentazione di una sorta di moderna mobilitazione rosa a livello mondiale. Ma come è nato il femminismo? Quali erano le sue battaglie e quali sono quelle attuali?
Le origini del femminismo
Il termine venne coniato nell’800 per indicare il neonato movimento che si batteva per l’emancipazione delle donne; era rappresentato dalle suffragette, che chiedevano proprio il suffragio, cioè il diritto di voto, che venne esteso anche alla popolazione femminile solo a partire dai primi del ‘900 in Finlandia (1905), Gran Bretagna e Stati Uniti (1920): italiane e francesi dovettero aspettare la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il femminismo vive poi una seconda fase a partire dagli anni ’60 in America, quando le donne iniziarono a chiedere parità sul posto di lavoro, più rispetto all’interno delle mura domestiche e libertà sessuale, anche attraverso l’uso della pillola anticoncezionale, introdotta negli Usa nel 1961. Le rivendicazioni maggiori riguardavano però il divorzio e l’aborto, con i referendum rispettivamente del 1974 e nel 1978. Nel 1975 venne assicurata assoluta parità giuridica tra uomo e donna, grazie anche alla sempre maggiore emancipazione femminile in campo lavorativo.
Una parità ancora lontana
Oggi le donne lavoratrici aspirano ad abbattere gli ostacoli che di fatto ne limitano ancora la presenza tra i vertici aziendali e dirigenziali, in molti settori ritenuti a lungo appannaggio maschile. Ma chiedono anche e soprattutto di cancellare il divario salariale ancora esistente e di abbattere le barriere che impediscono, soprattutto alle madri, di rientrare nel mondo del lavoro dopo la maternità, oltre a interventi che aiutino a coniugare lavoro e famiglia, la cui mancanza precludono la possibilità di carriera. Tutte rivendicazioni che hanno trovato spazio anche in occasione del G7 delle Pari Opportunità a Taormina, il 15 e 16 novembre scorso. A tutto ciò si aggiunge l’esigenza di una legislazione in materia di molestie, nella cui direzione vanno le recentissime norme contenute nel contratto degli statali, che prevedono, ad esempio, sanzioni e persino licenziamenti in caso di recidiva.