«La fibromialgia è la prima causa di assenza dal lavoro nel mondo: colpisce una percentuale spaventosa, fino al 10% della popolazione e non è diagnosticata, perché fino a 30 anni fa era considerato un disturbo di natura psicosomatica, dunque come tale un po’ dimenticato». Non ha dubbi Antonio Puccetti, professore associato presso l’Università di Genova, esperto reumatologo e di malattie autoimmuni. È lui che, insieme a Claudio Lunardi dell’Università di Verona, ha condotto uno studio che ha aperto la strada a nuove terapie per curare la fibromialgia: la malattia, che colpisce l’apparato muscolo-scheletrico, ha una componente autoimmune. Una scoperta che permetterà un approccio nuovo, non basato esclusivamente sul ricorso ad antinfiammatori e antidolorifici.
La fibromialgia come una malattia autoimmune
La ricerca, pubblicata sul Journal of Clinical Medicine, ha indagato le cause di questa malattia (soprattutto femminile) che in Italia colpisce circa 2 milioni di persone, lasciandone però molte altre senza una corretta diagnosi. «Lo studio condotto insieme all’università di Verona ha indagato il genoma, che contiene le informazioni sullo stato di salute delle cellule, ed è stato associato a test sierologici su un vasto campione di pazienti, mostrando come la fibromialgia è una malattia che presenta aspetti autoimmuni. Questo spiega anche perché colpisca maggiormente le donne (che sono più predisposte a soffrire di patologia autoimmuni come alcune forme di tiroidismo) o soggetti che presentano anche altre sindromi autoimmuni, come la celiachia, il lupus eritematoso o alcune dermatiti. Si tratta di una novità perché finora la base autoimmune della fibromialgia non era mai stata accertata» spiega il professor Puccetti.
Le nuove cure
Si presenta con un dolore diffuso, di natura muscolo-scheletrica, spesso alle braccia e agli arti. «Un’altra caratteristica frequente è l’astenia, il senso di stanchezza, la perdita dell’orologio biologico interno, come se fossimo sotto l’effetto continuo del jet leg, del cambio di fuso orario: si smette di dormire o si dorme male. Si possono anche presentare patologie associate, come disturbi intestinali o malattie di tipo urogenitale (cistite nelle donne, prostatite negli uomini)» spiega il professor Puccetti. «I risultati della ricerca, però, sono incoraggianti perché ci permettono un nuovo approccio alla cura. Se finora si ricorreva prevalentemente ad antidolorifici, antiinfiammatori e in alcuni casi ad antidepressivi, ora possiamo contare anche su farmaci immunosoppressori e steroidei lievi» spiega l’esperto.
Cosa cambia nelle terapie
«Finora si è agito soprattutto sulla riduzione del dolore ricorrendo anche a morfina e cannabis. Adesso, invece, possiamo intervenire alla radice del dolore, cioè sull’infiammazione che interessa le terminazioni nervose. E che non è altro che il risultato di una risposta immunitaria esagerata. Per colpa dell’infiammazione, le terminazioni nervose ‘vanno in tilt’ e traducono il dolore in misura molto amplificata e di gran lunga superiore a quella che percepirebbe una persona non ammalata: se un soggetto sano percepisce 1, un fibromialgico arriva a sentire fino a 1 milione. Per curare la sindrome, dunque, adesso possiamo contare su farmaci ad azione immunomodulatoria e immunosoppressiva, che riducono la risposta immunitaria sproporzionata. Certamente si tratta di terapie che vanno somministrare da specialisti che abbiano conoscenza della malattia e operino presso centri specializzati. Non basta il medico di medicina generale o il fisioterapista, anche se la terapia muscolare può aiutare: occorre un esperto in malattie reumatiche e autoimmuni» chiarisce Puccetti.
Ma che “rischi” si corrono con i cortisonici e i farmaci autoimmuni? «Possiamo tranquillizzare e dire che i dosaggi sono molto limitati e gli effetti collaterali di gran lunga inferiori rispetto ai benefici della terapia. Ormai esistono anche cortisonici naturali a lento rilascio, che permettono di ridurre fortemente la quantità di medicinale in circolazione nelle 24 ore» aggiunge l’esperto.
Quali sono i fattori scatenanti
«Partendo dalla considerazione che c’è una predisposizione genetica, esistono poi una serie di cause che possono essere scatenanti e contribuire all’insorgenza della sindrome: di solito c’è un forte stress, che può essere dato dalla perdita di un familiare, un divorzio, o magari un problema lavorativo che investe anche la sfera personale. Un’altra componente può essere un’infiammazione di tipo virale, come il contatto con il virus che causa la mononucleosi. È dunque una sindrome multifattoriale che, pur essendo molto invalidante per chi ne soffre – perché si arriva a non andare al lavoro o a non uscire per fare la spesa o incontrare persone – ha almeno il “vantaggio” di non avere una prognosi negativa, di tipo oncologico: insomma, non evolve in un tumore e, nonostante il dolore intenso, non aggredisce le articolazioni o la muscolatura» spiega l’esperto.
Cosa cambia per i pazienti: possibili esenzioni?
«Un vantaggio pratico per i pazienti è che la fibromialgia sarà inserita nella lista delle malattie che danno diritto ad esenzioni. Questo è un passo importante, perché la sindrome presupposte un ricorso medio a volte molto forte ai farmaci. Le procedure burocratiche sono lunghe, ma l’iter al ministero della Salute è già avviato. Siamo soddisfatti anche perché questa ricerca restituisce dignità a chi soffre di fibromialgia, che viene riconosciuta come vera e propria malattia» spiega il reumatologo ed esperto di malattie autoimmuni.
Test genetici in futuro?
Si può pensare di disporre in futuro di test genetici per diagnosticare la sindrome anche prima della comparsa dei sintomi? «In realtà esistono già, ma sono troppo costosi, nell’ordine di 1.000/2.000 euro, non è proponibile un uso di routine. Pensiamo però che in futuro, superata la fase di ricerca, potranno diventare più accessibili e consentire una diagnosi precoce, che evita di raggiunge il picco di dolore e sofferenze sul lungo periodo» conclude l’esperto.