A che punto è il riconoscimento della fibromialgia nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza? Possiamo aspettarci novità importanti quest’anno? E al lavoro, un malato di fibromialgia può pensare di essere creduto? Sono maturi i tempi per avere delle esenzioni dalle spese sanitarie, il riconoscimento di un’invalidità, anche più semplicemente un certificato dal medico di base che attesti la malattia e si possa utilizzare al lavoro?
Il primo film sulla fibromialgia
Le domande in tema di fibromialgia sono le stesse di sempre. Le risposte forse cominciano a cambiare. E cambiano proprio perché negli anni la soglia di attenzione verso la malattia, anche da parte delle istituzioni, si è alzata. Adesso arriva anche un docu-film, AD MAIORA-Vittime di una malattia invisibile: un grido di dolore ma prima di tutto un canto corale di tanti, tantissimi pazienti – soprattutto donne – che vogliono farsi sentire e farsi vedere. Viene reso disponibile in anteprima il 9 maggio sul canale Youtube di Dedalus39 (la casa di produzione che l’ha realizzato), in un evento online che anticipa la data in cui si celebra ogni anno la Giornata mondiale della fibromialgia, il 12 maggio.
Come vedere il film il 9 maggio
Nella giornata del 9 maggio chiunque può collegarsi con l’associazione CFU Italia alla pagina Facebook CFU Italia, oppure al sito o al canale Youtube dove il documentario viene presentato alle 15. Ci siamo anche noi di Donna Moderna, da sempre vicini ai malati di fibromialgia. Sono presenti il regista e la protagonista e tanti ospiti. Un’occasione importante per vedere finalmente rappresentata la condizione dei 3 milioni di persone che ne soffrono in Italia, con tutte le contraddizioni che la malattia si trascina dietro: il non lasciare cicatrici visibili, il fatto di non essere creduti neanche dai propri cari, la difficoltà di ottenere la diagnosi, l’umiliazione di farsi indicare altre patologie per poter usufruire di certi farmaci, la complicazione di una malattia multifattoriale, la diffidenza dell’ambiente lavorativo, le malattie che questa stessa patologia a sua volta scatena e a cui è legata. Una ramificazione di sintomi, segnali e problemi difficili da interpretare e riportare, anche per gli stessi pazienti. Tante sfaccettature di una condizione che il film cerca di ritrarre e che in ogni caso faticano ad emergere perché prima di tutto si fatica a riconoscerli e accettarli.
L’evento del 12 maggio
Il 12 maggio, Giornata mondiale della fibromialgia, sempre collegandosi alla pagina Facebook di CFU Italia, viene presentato il primo studio nazionale su fibromialgia e lavoro. Lo studio è durato tre anni ed è stato realizzato a quattro mani da Fondazione ASPHI, CISL, Comitato Fibromialgici Uniti – Italia, Fondazione Isal Ricerca sul dolore. Ha coinvolto migliaia di persone in varie città d’Italia ed è la prima volta che si raccolgono in modo scientifico i disagi, le richieste, i problemi dei pazienti legati al mondo del lavoro. Spiega Gabriele Gamberi, esperto di inclusione lavorativa e tecnologie digitali di Fondazione ASPHI, che ha creduto in questo progetto: «Finora il disagio nel contesto del lavoro veniva raccolto solo nelle associazioni, da oggi verrà condiviso con il sistema delle imprese, che potranno trasformare il disagio in benessere in modo concreto attraverso gli accomodamenti ragionevoli individuati nella ricerca».
Il primo Osservatorio sul lavoro
Fondazione Asphi collabora con 15 partner, tra cui aziende importanti, chiamate quindi ad aprire gli occhi e collaborare nel rendere i luoghi di lavoro posti accessibili anche a chi ha questa malattia. «Raccolti i bisogni dei lavoratori, ora occorre trovare le soluzioni» dice sempre Gabriele Gamberi. «Per questo il 12 maggio lanciamo il primo Osservatorio su salute e benessere nei luoghi di lavoro: uno spazio fisico, ma anche virtuale, in cui le aziende possono confrontarsi e mettere in comune sperimentazioni in corso, buone pratiche e rifornirsi di informazioni e competenze sulle possibili soluzioni».
Le aziende devono adeguarsi
Il titolo del film AD MAIORA insomma è un auspicio sul futuro, per poter lanciare uno sguardo positivo anche nei luoghi di lavoro per chi ha la fibromialgia: «Dobbiamo sapere tutti che, anche se la malattia non è riconosciuta come invalidante, le aziende sono tenute ai cosiddetti “accomodamenti ragionevoli” stabiliti dalla convenzione Onu del 2009, che anche l’Italia ha ratificato. Significa che il datore di lavoro è tenuto a rendere il posto di lavoro accessibile anche a chi ha una malattia che dia un’invalidità inferiore al 46 per cento. E poiché spesso chi ha la fibromialgia ha anche altre patologie, può sicuramente farle valere per pretendere il rispetto dei propri diritti». Maria Cristina Cimaglia, avvocata giuslavorista, si spinge oltre e spiega che i tempi sono maturi anche in Italia per considerare disabile chi soffre di fibromialgia: «Anche la Cassazione è intervenuta per chiarire cosa si intende per disabilità: una malattia di lunga durata che incide sull’integrazione sociale, scolastica e lavorativa della persona. La disabilità, cioè, oggi non deriva sempre e solo da una menomazione fisica, ma dall’interazione con l’ambiente sociale e lavorativo e scolastico. Se questa interazione è problematica e incontra delle barriere, la persona si può considerare disabile. Oggi quindi possiamo dire che la fibromialgia è una forma di disabilità e si porta dietro le tutele che il diritto del lavoro garantisce».
Il “bollino” non basta: il clima aziendale è fondamentale
Poiché la situazione sta evolvendo, ci si aspetta allora al più presto un cambiamento profondo. La scienza sta facendo la sua parte. Da poco è stato fatto uno studio pilota sulla causa autoimmune della fibromialgia e questo potrebbe rendere concreta l’ipotesi di curarsi in modo diverso e non solo col ricorso ad antiinfiammatori e antidolorifici. Ma potrebbe significare anche che la malattia non può più essere liquidata come una forma di depressione o una serie di sintomi legati ad altre patologie. Sicuramente, una volta riconosciuta la base scientifica della malattia, diventerebbe anche più facile legittimarla nell’ambiente di lavoro, anche se già oggi ci sono le basi per lavorare sul clima aziendale e sull’accettazione della patologia. Spiega infatti Michael Tenti, psicologo e ricercatore della Fondazione Isal, che ha personalmente raccolto ed elaborato i temi emersi nei vari forum. «Il “bollino” è fondamentale però non basta. Avere un posto nella tabella delle invalidità non rappresenta la salvezza definitiva perché si può essere allontanati e discriminati se non esiste in azienda un clima favorevole, se cioè i colleghi e i superiori non sono stati preparati e sensibilizzati a capire le conseguenze di questa malattia sulla vita personale e relazionale di chi ne soffre».
Come curarsi senza il lavoro?
La domanda resta una: se una persona perde il lavoro per curarsi, come può curarsi senza il lavoro? Il dottor William Raffaeli, presidente della Fondazione Isal, una vita impegnata a curare il dolore cronico, restituisce il ritratto di una condizione che deve evolvere: «Molte malattie oggi nelle aziende vengono ammesse e non giudicate, grazie alle leggi che tutelano i malati. Chi rivela di soffrire di fibromialgia in fabbrica o in ufficio, invece, viene ancora giudicato e, al limite, giustificato. Ma i lavoratori con questa patologia non vogliono essere giustificati, semmai giudicati per la loro capacità di essere utili».