Lavorare con una malattia cronica come la fibromialgia può essere difficile. Chi soffre di questa patologia, riconosciuta ormai in quasi tutti i Paesi del mondo, fatica a essere creduto perché la fibromialgia rende disabili senza che la disabilità sia evidente. Non si finisce su una sedia a rotelle e non sempre si ha bisogno di un bastone, i segni tangibili – nell’opinione comune – della disabilità. Facile quindi che nell’ambiente di lavoro, dove regnano complessità e conflitti, questa malattia non abbia la stessa dignità di altre. E così, per non rischiare discriminazioni, mobbing o semplicemente per evitare di non essere creduti, o tacciati di sciatteria e svogliatezza, chi ne soffre spesso non lo dice neppure, alimentando però intorno a sé, in questo modo, un alone di diffidenza, sfiducia e scarsa considerazione da parte del team di lavoro.
La nostra diretta del 12 maggio
Parliamo di tutto ciò – e delle proposte concrete per cambiare – MERCOLEDÌ 12 maggio (Giornata mondiale della fibromialgia) in un evento online visibile sulla pagina Facebook dell’associazione CFU Italia. Presentiamo i risultati della prima ricerca nazionale su fibromialgia e lavoro condotta da Fondazione ASPHI, CISL, Comitato Fibromialgici Uniti – Italia, Fondazione Isal Ricerca sul dolore. Lo studio è durato tre anni: ciò che prima era una denuncia a macchia di leopardo raccolta dalle associazioni, è diventato ora uno studio, materiale prezioso per le aziende e per le istituzioni.
Il primo studio nazionale su fibromialgia e lavoro
Lo studio ha visto coinvolte migliaia di persone. Una tappa importante che getta le basi per arrivare finalmente al riconoscimento della disabilità per chi soffre di questa malattia e all’inserimento nei Lea (i Livelli Essenziali di Assistenza). «Per arrivare a questi obiettivi servono azioni coordinate, cioè attivare una catena in cui non bastano il medico o il politico, ma servono lo psicologo, l’esperto di diritto del lavoro, l’associazione» spiega Gabriele Gamberi, che si occupa di inclusione lavorativa in Fondazione ASPHI . «Tempo fa non si poteva neanche avere la diagnosi. Oggi c’è, ma non basta, soprattutto al lavoro, perché non si viene creduti. Serve quindi la ricerca scientifica che ne dimostri la fondatezza. Ma per fare ricerca occorrono persone che ne comprendano l’importanza – e la ricerca sul dolore spesso non è finanziata. Serve sensibilizzare gli enti, ma per questo ci vogliono i gruppi di interesse, che si riconoscono a loro volta intorno alla diagnosi. Insomma, un lungo e tortuoso cammino che dura da 20 anni».
Le richieste nascono da problemi reali
Un cammino che getta briciole sul sentiero, che alla fine diventa una strada verso casa. Forse stavolta ci siamo. Barbara Suzzi, presidente dell’associazione CFU Italia, da cui è partita la spinta a realizzare lo studio, racconta di aver ricevuto centinaia di email dal 2017. Le testimonianze, spesso sofferte e dolenti, a volte di denuncia, sono state raccolte per poi convocare le persone in diversi focus group nelle città italiane, dove i disagi legati al lavoro sono emersi in modo ancora più sfaccettato. «Il problema lavorativo di chi ha la fibromialgia è enorme. Finora lo ascoltavamo solo noi all’interno delle associazioni, adesso finalmente può essere sotto gli occhi di tutti. Ed è un problema oggettivo, fatto di dati, situazioni, contesti. Esistenze al limite».
Anche il San Raffaele si concentra sul lavoro
I tempi sono maturi per una vera riflessione su fibromialgia e lavoro. Sta infatti crescendo l’interesse verso questa malattia e le problematiche legate all’occupazione. Per la prima volta un ospedale, per esempio, ha certificato nero su bianco che il bisogno di tolleranza sul lavoro da parte del malato di fibromialgia è reale e non appartiene alla mitologia dello scansafatiche o all’area della depressione. «L’ospedale San Raffaele di Milano ha pubblicato una ricerca realizzata durante il lockdown che dimostra il beneficio oggettivo dello smart working sui pazienti fibromialgici. Poter lavorare secondo ritmi propri, che possono cambiare giorno per giorno, si è dimostrato un adeguamento fondamentale di cui le persone con fibromialgia chiedono da tempo di poter usufruire» racconta la presidente del CFU Italia.
Le esigenze dei malati al lavoro
Non è solo lo smart working uno dei cambiamenti invocati dai pazienti nello studio che sta per essere pubblicato. Chiedono incentivi alle aziende che si adeguano alle normative, polizze sanitarie agevolate, lo sconto sull’età pensionistica. E poi più flessibilità sull’orario di lavoro, cioè di poterlo spostare o ridurre (pensiamo alle fabbriche, per esempio, o ai turni negli ospedali), la riduzione dei carichi pesanti magari nei giorni più difficili per la malattia, l’uso di dispositivi di protezione individuali (come i tappi per le orecchie), sedie e monitor ergonomici per chi lavora negli uffici, pause regolari e con cambi di postura.
Chi ha la fibromialgia deve poter avere la disabilità
Dallo studio emergono tante necessità, che spingono a poter considerare disabili le persone con questa malattia. Maria Cristina Cimaglia, avvocata giuslavorista, spiega che i tempi sono maturi anche in Italia per considerare disabile chi soffre di fibromialgia: «Anche la Cassazione è intervenuta per chiarire cosa si intende per disabilità: una malattia di lunga durata che incide sull’integrazione sociale, scolastica e lavorativa della persona. La disabilità, cioè, oggi non deriva sempre e solo da una menomazione fisica, ma dall’interazione con l’ambiente sociale e lavorativo e scolastico. Se questa interazione è problematica e incontra delle barriere, la persona si può considerare disabile. Oggi quindi possiamo dire che la fibromialgia è una forma di disabilità e si porta dietro le tutele che il diritto del lavoro garantisce».
Il clima in azienda è fondamentale
Da tempo i fibromialgici chiedono il riconoscimento della disabilità, non tanto per averne il “patentino”, quanto per poter lavorare in armonia, oltre che, naturalmente, per avere esenzioni e benefici dal punto di vista sanitario. «Il “bollino” è fondamentale però non basta» precisa Michael Tenti, psicologo e ricercatore della Fondazione Isal, che ha personalmente raccolto ed elaborato i temi emersi nei vari forum. «Avere un posto nella tabella delle invalidità è fondamentale, ma il “bollino” non rappresenta la salvezza definitiva perché si può essere allontanati e discriminati se non esiste in azienda un clima favorevole, se cioè i colleghi e i superiori non sono stati preparati e sensibilizzati a capire le conseguenze di questa malattia sulla vita personale e relazionale di chi ne soffre».
La paura del licenziamento
Proprio la sensibilizzazione è una delle esigenze primarie emerse dai questionari nei forum, dove – come racconta il dottor Tenti – «Il 70 per cento delle persone, potendo parlare liberamente, racconta di non essere credute neanche a casa, figuriamoci al lavoro. E se a casa, anche condividendo il problema, vengono considerate depresse o svogliate, al lavoro temono di rischiare il licenziamento. Molti denunciano perfino il mobbing, spia di un ambiente malsano e di rapporti sicuramente complicati».
Il mobbing esiste ma le aziende stanno cambiando
Possibile essere mobbizzati in presenza di una malattia? «Succede, anche se, alla fine di un eventuale procedimento in tribunale, nella maggior parte dei casi si finisce per dare ragione al lavoratore» interviene Silvia Stefanovichj, resonsabile disabilità per la Cisl Nazionale. «È evidente come occorra cultura all’interno delle imprese ma possiamo dire con certezza che oggi il clima sta cambiando: le imprese sono ancorate sempre più al bilancio sociale e alla sostenibilità perché si sono accorte che essere inclusivi conviene, porta un valore che non è solo culturale ma anche economico. Porta soldi». La cultura dell’inclusività significa che oggi ha diritto al suo posto in azienda e a tutele specifiche non solo la persona con disabilità legate a cecità, sordità o in carrozzina, ma anche chi soffre di patologie che non si vedono. E se per alcune di queste – come i tumori – la legislazione ha fatto passi in avanti nella tutela dei diritti, sulla fibromialgia la strada è ancora tutta da segnare.
La tutela dei diritti al lavoro è basilare
Se la situazione sta evolvendo, ci si aspetta allora al più presto un cambiamento profondo. E visto che tutto deve cambiare e sta in parte cambiando, il punto di partenza dev’essere però il lavoro. Se una persona perde il lavoro per curarsi, come può curarsi senza il lavoro? «Molte malattie oggi nelle aziende vengono ammesse e non giudicate, grazie alle leggi che tutelano i malati. Chi rivela di soffrire di fibromialgia in fabbrica o in ufficio, invece, viene ancora giudicato e, al limite, giustificato. Ma i lavoratori con questa patologia non vogliono essere giustificati, semmai giudicati per la loro capacità di essere utili». Il dottor William Raffaeli, presidente della Fondazione Isal, una vita impegnata a curare il dolore cronico, ci tiene a spazzare il campo da ipocrisie o pietismi. «Le aziende non sono famiglie, non ci si può aspettare affetto ma, una volta riconosciuta la malattia anche dal medico del lavoro, chi ne soffre può almeno rivendicare gli stessi diritti di altri malati. Ricordiamoci che anche se oggi la malattia viene curata con protocolli specifici e piovono diagnosi da diversi esperti (dall’ortopedico al neurologo al reumatologo), chi ne soffre ha una debolezza che non sempre gli altri possono capire. Come certificare la stanchezza o il dolore dappertutto? Come essere creduti, anche con la diagnosi? Quando poi si tratta di donne (come nel 90 per cento dei casi), la probabilità di essere considerate fragili e depresse – magari con uno sguardo di commiserazione – è ancora più alta». Se quindi i progressi della ricerca sono importanti, se si arriverà a un marcatore che certifichi il grado di dolore procurato dalla fibromialgia (a cui Fondazione Isal sta lavorando), la vera differenza la farà la sensibilità delle persone, dentro e fuori dall’azienda.