Non tutte le disabilità sono visibili: le malattie mentali, o la depressione per esempio, non lasciano segni evidenti sul corpo. E non tutti gli ammalati cronici sono considerati disabili. È il caso di chi soffre di fibromialgia, una serie di disturbi che colpisce in Italia circa due milioni di persone ma che non ha ancora avuto la “patente” di malattia o sindrome. Eppure, come scrivete nelle vostre storie che stiamo raccogliendo, i dolori che provoca sono intensi e prolungati, fino al punto di impedire di fare una vita normale, uscire con i figli, lavorare, occuparsi della famiglia. Una “malattia non malattia”, senza cicatrici apparenti ma che, a tutti gli effetti, rende le persone disabili.
La fibromialgia verso i Lea?
Qualcosa però si sta muovendo, grazie alla battaglia che da anni conduce soprattutto l’associazione CFU Italia: «Abbiamo consegnato al Ministero della Salute tutta la documentazione scientifica necessaria, insieme ad Aisf (Associazione Italiana Sindrome Fibromialgica)» spiega Barbara Suzzi, presidente di CFU Italia. «I tempi sarebbero dunque maturi perché la fibromialgia venisse inserita nei Lea, i Livelli Essenziali di Assistenza, ovvero l’elenco delle prestazioni e servizi che il Servizio sanitario è tenuto a fornire ai cittadini. Tutto sta nel trovare la copertura economica necessaria, a cui seguirebbe poi l’inserimento fra le voci di spesa delle previsioni di bilancio del 2019». La partita si gioca quindi da qui fino a metà ottobre 2018, quando sarà varata la Legge di bilancio con un apposito disegno di legge da presentare in Parlamento.
L’importanza di avere i rimborsi
Perché è così importante che la fibromialgia venga inserita nei Lea? «Fino a oggi, chi soffre di fibromialgia non si vede riconosciuti rimborsi da parte dello Stato, con l’eccezione di qualche sconto applicato da alcuni centri privati e ospedali pubblici grazie ad accordi presi tra le associazioni di pazienti e i centri stessi, a cui noi in particolare stiamo lavorando» prosegue Barbara Suzzi. «L’obiettivo quindi è veder garantita la malattia come tale, in modo da poter contare su un tetto che copra le visite mediche e i controlli di base, oltre alle cure, su cui si stanno facendo nuove scoperte: la fibromialgia richiede consulti specialistici, esami e monitoraggi continui. Anche sul fronte delle terapie complementari ve ne sono diverse che si sono dimostrate efficaci, ma comunque restano totalmente a carico del paziente».
Il problema del lavoro per chi soffre di fibromialgia
Un sacrificio in termini di tempo e di energie, ma anche economico, complicato dal fatto che molto spesso chi ne soffre è costretto a lasciare il lavoro, come raccontate nelle vostre testimonianze di sofferenza e sì, anche esclusione: troppi permessi e troppi giorni di malattia, senza la possibilità di usufruire per esempio della legge 104, rendono difficile mantenere una routine lavorativa, oltre alla “credibilità” sul posto di lavoro. «Ma come, sei ammalato? Non è possibile!». Chi soffre di fibromialgia è abituato a essere definito “malato immaginario”, a non essere creduto, a venire scambiato per “depresso”, ma non per questo si rassegna. In gioco c’è la propria dignità. Il problema, agli occhi degli altri, è che si tratta di una “malattia invisibile“ che non lascia cicatrici, gambe o braccia con protesi, carrozzine o stampelle. Il dolore è tutto profondo e personale (oltre ad essere “personalizzato”, quindi con una diagnosi spesso molto complessa da raggiungere) e costringe a dosi massicce di farmaci anche solo per poter uscire da casa: dolori in molte parti del corpo, difficoltà a muoversi e restare concentrati, insonnia, ipersensibilità a sostanze chimiche, stanchezza cronica, depressione. Un “pacchetto di sintomi” difficili da cucire insieme in una trama riconoscibile, e quindi da riportare a un unico filo conduttore.
Eppure quel filo c’è, ma è un filo invisibile, che nel tempo di una vita si ingarbuglia sempre più, tra l’incomprensione degli altri, la difficoltà a stare in mezzo alle persone, il disagio psicologico che ne consegue, il senso di inadeguatezza che spinge a isolarsi e a pensare perfino che parlarne troppo possa allontanare gli altri ancora di più. «Come se – ci scrivete – si dovesse sempre dimostrare che stiamo male». Inquadrare la fibromialgia come malattia vorrebbe dire estendere a tutti il diritto di curarsi, di accedere ai trattamenti, di dire: «Sì, sono ammalato di fibromialgia».