Esiste un modo di soffrire e di essere ammalati al maschile? Esistono malattie che se colpiscono gli uomini sono più aggressive? E gli uomini si percepiscono in modo diverso dalle donne, a parità di malattia? Ci poniamo questi interrogativi quando ci raggiunge in redazione la testimonianza di Fabio Salvatore: a 43 anni, sono già 22 che combatte con il cancro e da pochi anni anche con la fibromialgia.
Già, una malattia che in maggioranza colpisce le donne ma che tra i 2 milioni di pazienti italiani, raccoglie anche qualche migliaio di uomini. Il numero esatto non lo conosciamo: dati al maschile non ne esistono, neanche a livello internazionale. Ragionevole quindi pensare che il fenomeno sia sottostimato, come sono sottostimati anche i dati al femminile. Eppure anche i maschi ne sono colpiti. Da studi recenti, sembra che la fibromialgia al maschile sia caratterizzata, oltre che da tutti i sintomi classici della malattia, da scompensi cardiaci e problemi di equilibrio.
Uno di questi pazienti maschi, forse ancora più “invisibili” delle donne, è proprio Fabio, che racconta al telefono come parlare del dolore degli uomini e agli uomini oggi sia ancora un tabù, «come se soffrire minasse la nostra identità e integrità, come se mettesse a rischio il nostro posto nel mondo e il ruolo nella famiglia». Da malato di cancro ha attraversato tante sofferenze e trovato sempre sostegno e comprensione, nei medici in prima battuta. Da malato di fibromialgia invece racconta di aver incontrato muri di diffidenza e perfino disprezzo. «Il problema sono le cicatrici che ti lascia questa malattia. Le ferite sono dentro, fuori la patologia non lascia segni. Tutti invece vogliono vedere la tua sofferenza. Per tutti noi, immersi come siamo nella cultura dell’immagine, tutto ciò che non si vede non esiste». E allora che malattia è una malattia che non deforma e non fa dimagrire? Che non ti fa isolare in una stanza d’ospedale a ingurgitare radioattività? Che dolore ti provoca se non è degenerativa?
Fabio racconta di una diagnosi certa e limpida, confermata da due ospedali. La sua, a differenze della maggior parte dei pazienti, non è stata un’odissea alla ricerca del medico giusto. Eppure, nonostante ciò, aver ricevuto la diagnosi non ha cambiato granché l’approccio dei medici. Questo perché in Italia, anche se viene riconosciuta come malattia, la fibromialgia poi non ha alcuna dignità. Non esistono esenzioni, tranne per certe cure in alcune Regioni, e sempre più spesso gli ammalati si sentono dire che «di fibromialgia non si muore, si può solo vivere male». In Commissione Sanità al Senato è fermo un disegno di legge che punta all’inserimento della patologia nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza. «Senza questo, è come se la malattia non esistesse: la diagnosi non serve se poi i medici non rilasciano certificati per i datori di lavoro o dobbiamo pagarci tutte le prestazioni» dice Fabio, che vuole unirsi agli altri pazienti in una battaglia che non può essere corporativa, ostaggio di schieramenti e alleanze, ma deve abbracciare tutte le associazioni e i gruppi di sostegno ai malati.
«Dobbiamo essere tutti uniti per ottenere il risultato per cui ci battiamo da anni. Non siamo pazzi, non siamo visionari e soprattutto non soffriamo di depressione. Semmai la depressione viene dopo la diagnosi, ma non è la causa della malattia. Il problema è che questa è la malattia del dolore. È un recettore del dolore cronico, spesso accesa da eventi della nostra vita. Eventi che accadono a tutti, ma che in certe persone scatenano i sintomi». A Fabio, già provato dal tumore alla tiroide che l’ha colpito a 22 anni, la fibromialgia è stata diagnosticata poco dopo la morte del padre: mentre era in terapia per una recidiva del tumore, lo raggiunge la notizia dell’incidente in cui il papà resta vittima. Si apre così una voragine di sofferenza in cui Fabio, già uomo, precipita, e che lascia una ferita tuttora aperta, dopo anni. Da quel momento però Fabio inizia la battaglia per il riconoscimento dell’omicidio stradale, ma comincia anche il suo cammino nel tunnel della fibromialgia. «Ho fatto meno fatica ad accettare il cancro, anche se ero ancora un ragazzo. Ma questa condanna a stare giorni chiuso in casa senza potermi alzare dal letto per i dolori alle gambe, per me è una sconfitta difficile da mandar giù».
Il fatto è che ti fai domande senza risposta: contro cosa sto lottando? Chi è il mio nemico? Dove colpisce e dove colpirà la prossima volta? Forse è anche per i mille volti che assume, che la malattia diventa così difficile da contrastare. «Le donne poi sono più abituate ad accettare ed elaborare il dolore, noi uomini ci crediamo invincibili. E così per noi quella che sarebbe solo una delle tante battaglie, finisce per diventare una guerra: ci armiamo di tutto punto pensando di vincere e invece su questo terreno si fanno solo piccole conquiste ogni giorno. E di questo bisogna accontentarsi. Noi uomini non l’abbiamo ancora capito».