Comincia verso i 7 anni, coinvolge circa 1 milione di bambini all’anno ed è una scelta sempre più delicata per tanti genitori, che siano credenti “tiepidi” o atei cresciuti però con una educazione cattolica tradizionale. Se una volta si mandavano i figli al catechismo e comunione e cresima erano appuntamenti imprescindbili del percorso spirituale dei bambini, oggi il dibattito tra genitori è aperto, soprattutto in vista delle iscrizioni del prossimo settembre. Meglio avviare i piccoli ai sacramenti dalle elementari o lasciarli liberi di scegliere da soli una volta adulti? Frequentare la catechesi è comunque un arricchimento storico-culturale, a prescindere dal credo religioso? E se mamma e papà non la pensano allo stesso modo, come mediare la “diatriba” in famiglia? Qui 4 esperti rispondono ai dubbi.
«Non frequentano? Non è detto che cresceranno atei: la fede si vive anche in forma privata»
Marco Marzano, sociologo dell’università di Bergamo e autore di Quel che resta dei cattolici (Feltrinelli).
Per i bambini di oggi, abituati a mille stimoli tra tv e web, il catechismo classico rischia di essere un’esperienza noiosa e poco significativa, specie se fatta solo per seguire gli amichetti. Nonostante la svolta di Papa Francesco, le parrocchie fanno ancora fatica a rinnovarsi e i catechisti capaci di appassionare i piccoli sono rari. Il risultato? Si arriva a stento alla cresima e poi ci si allontana dalla religione. In più, al catechismo di solito si imparano solo le preghiere: quanti di noi conoscono bene il Vangelo grazie alle lezioni in parrocchia? Tante famiglie mandano i figli in oratorio perché “male non fa”. Ed è vero: la religione veicola valori morali positivi. Ma un bambino di 10 anni potrebbe essere influenzato a pensarla in un certo modo su temi delicati, per esempio sull’omosessualità. I genitori, specie se non praticanti, devono chiedersi se il catechismo serva davvero ai figli. E pensare che, se anche non lo frequentano, non è detto che cresceranno atei: la fede oggi si vive anche in forma privata, senza la cornice istituzionale della Chiesa.
«Il catechismo aiuta a riflettere sulla vita e risponde al bisogno di spiritualità dei bambini»
Nicla Vassallo, docente di Filosofia teoretica all’università di Genova.
Se impartito da un insegnante bravo e preparato il catechismo non può che far bene a un bambino. Aiuta a riflettere sulla vita ed è un arricchimento culturale: racconta la storia del Cristianesimo, importante per tante religioni. I bambini, come gli adulti, hanno una forte esigenza di spiritualità, di rapportarsi con cose che non vedono. E in un mondo individualista c’è bisogno di abituarli a fare gruppo e socializzare: opportunità offerte da un buon oratorio. Le famiglie che scelgono questo tipo di educazione, pur non essendo particolarmente credenti, dovrebbero individuare con cura la parrocchia. E accertarsi che il catechista non usi i metodi di una volta, quando c’erano fin troppi divieti e tabù invasivi della sfera privata, dall’aborto al sesso prima del matrimonio. L’importante è che la decisione dei genitori non sia ideologica: si rischierebbe di privare i figli di occasioni formative importanti.
«Oggi non si affrontano più concetti di teologia complicati: usiamo il gioco e la narrazione»
Chiara Stancari, catechista di Zola Predosa (Bologna).
Insegno catechismo e dico una cosa controcorrente: se comunione e cresima si fanno tanto per avere le carte in regola per sposarsi in chiesa o perché il bambino vuole ricevere i regali, allora meglio fermarsi. Non c’è nulla di male a scegliere di non frequentare la dottrina, i sacramenti possono essere presi da adulti. Il catechismo non è come un corso di chitarra: è un impegno da portare avanti anche a casa e la famiglia dovrebbe farsi coinvolgere, accompagnando il figlio a messa e partecipando alla vita della parrocchia. Per chi invece vuole insegnare ai bambini a coltivare una vita religiosa, niente paura: il catechismo non è più bacchettone, almeno non in oratori come il mio. Oggi ci si sforza di comunicare i messaggi religiosi usando il gioco e la narrazione. L’obiettivo è gettare le basi di una fede basata sull’amore universale, non trasmettere complicati concetti di teologia che i ragazzi non capirebbero.
«Per scegliere bisogna conoscere: lasciate ai figli la libertà di frequentare e, poi, di decidere»
Anna La Prova, psicoterapeuta presso l’Associazione di Psicologia cognitiva del Lazio.
Mandare i figli a catechismo o battezzarli sono scelte che possono creare conflitti in famiglia o accentuare quelli già esistenti, per esempio tra un papà credente e la mamma atea. O con i nonni, che spingono per l’educazione religiosa dei nipoti per fede o per tradizione. Si deve trovare un compromesso e spiegare la scelta al bambino in modo chiaro, senza screditare il genitore che ha rinunciato al proprio punto di vista o il suocero insistente. Dicendo per esempio: la mamma e i nonni credono in Dio ma il papà no. Se lui non viene a messa con noi non preoccuparti: non c’è nulla di male nel non credere. Per orientarsi nella decisione è bene ricordare che per scegliere bisogna conoscere. E il catechismo può essere un buon modo per presentare ai figli la religione cattolica, che è parte integrante della cultura italiana. Una volta cresciuti, saranno liberi di lasciare la Chiesa, se lo vogliono.
![disegno di catechismo](https://www.donnamoderna.com/content/uploads/2016/08/disegno-catechismo-700x545.jpg)
SIAMO SEMPRE PIÙ IN CRISI CON LA RELIGIONE
Anche se restiamo un Paese con una forte tradizione cattolica, negli ultimi anni anche in Italia il distacco dalla religione è sempre più evidente.
Secondo il Rapporto sulla secolarizzazione della Fondazione Critica Liberale e Cgil, dal 1994 al 2014 tutti i sacramenti sono calati. Ricevono la prima comunione il 15% di bambini in meno e c’è una diminuzione del 26% anche per i cresimati. I matrimoni in Chiesa sono calati del 54% e, secondo uno studio del Censis, nel 2020 i riti civili supereranno quelli religiosi.
Ci sono anche sempre meno preti: nel 2013 “solo” 376 nuove ordinazioni. E rispetto a 20 anni fa gli esoneri dall’ora di religione a scuola sono raddoppiati: riguardano l’11,5% degli studenti, con punte del 18% alle superiori.