Entrano nella tua vita come casi di cronaca violenta e la prima reazione che hai è catalogarli nello schedario: follia. Poi, però, leggi le storie di questi ragazzi, delle loro famiglie, dei motivi in apparenza futili che li hanno portati a uccidere un genitore. Ora c’è il sedicenne di Pontelangorino, Ferrara, che con un amico ha ucciso a colpi di ascia i genitori che gli rimproveravano di andare male a scuola. Nel 2015 la 17enne calabrese che ha sparato alla madre che le negava Facebook e la coppia di giovani innamorati assassini di Ancona. E ti chiedi: siamo proprio sicuri che queste tragedie siano poi così lontane da noi, da te?
Guardo mio figlio preadolescente sdraiato sul divano col tablet in mano, siamo a pochi metri di distanza ma tra di noi c’è un muro invisibile, è come se abitassimo due mondi paralleli: quello reale, di casa nostra, e il suo, virtuale, al quale non ho accesso. Non so con chi si scrive, cosa fa, se – come dice – sta “solo” giocando. So di certo che ogni volta che provo a mettere dei paletti e delle regole, puntualmente vengono trasgredite. Che le nostre liti degli ultimi mesi vertono su un unico fronte, l’eccesso di tempo che passa attaccato a un monitor. Che i miei “no” scatenano regolarmente reazioni avverse. Ho la sensazione di essere in mezzo a un conflitto senza sapere contro cosa sto combattendo.
La maggior parte dei delitti avviene tra le mura domestiche
Paralleli con storie di cronaca nera, lo so, non si dovrebbero fare perché confondono le normali dinamiche genitore-figlio adolescente con casi di estrema conflittualità e marginalità. Ma la famiglia, confermano i dati, è comunque il luogo dove sentirsi meno sicuri. Secondo un rapporto Ansa-Eures, nell’ultimo decennio gli omicidi consumati all’interno della sfera domestica sono stati 1 ogni 2 giorni. Si muore di più per colpa di un parente che per mano di un criminale. La maggior parte dei delitti avviene tra coniugi e a farne le spese sono purtroppo le donne, madri o mogli, uccise da mariti violenti. Parricidi e matricidi sono rari, tanto è vero che i casi fanno subito scalpore e non vengono più dimenticati, da Pietro Maso nel 1991 a Erika e Omar nel 2001.
Le categorie più a rischio: i ragazzi che non sanno litigare
Anche sapendo che è un fenomeno marginale, l’interrogativo rimane: perché un figlio arriva a odiare così tanto un genitore da volerlo uccidere? È un malato, un folle o oggi ci sono nuove tensioni in famiglia che sottovalutiamo e che possono scatenare all’improvviso la furia?
Daniele Novara è da 25 anni alla guida del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei confitti di Piacenza (cppp.it). Autore di manuali famosi come “Urlare non serve a nulla” (Bur Rizzoli), il 28 novembre a Milano presenterà il risultato di una ricerca che lui definisce rivoluzionaria: «Io e il mio staff abbiamo individuato una nuova tipologia di disagio chiamata “carenza conflittuale”» spiega il pedagogista. «Mentre la teoria classica dice che il ragazzo litigioso diventa violento, noi sosteniamo il contrario: è il ragazzo che non sa litigare a trasformarsi all’improvviso in un soggetto pericoloso perché ha difficoltà a tollerare i contrasti e li vive come una minaccia insostenibile. È un tipo di adolescente che non regge un “no” e potrebbe avere una reazione violenta reale invece di fermarsi al solo pensiero “mamma vorrei che in questo momento tu scomparissi”. In genere, nelle forme più gravi, questi ragazzi sono un rischio per se stessi e meno per gli altri, perché tendono al suicidio più che all’omicidio. Fare un identikit è complesso, ma in generale i carenti conflittuali hanno avuto problemi educativi, sono stati bambini mortificati da piccoli da madri depresse o soffocati da figure iperprotettive che non hanno permesso loro di imparare a esprimere la litigiosità e a gestire la rabbia. Abbiamo messo a punto un questionario per capire quali sono i profili più esposti, lo daremo agli operatori delle comunità, alle scuole, agli psicologi».
La futura emergenza: i “ritirati sociali” che si rifugiano sul web
Un brutto voto a scuola, il cellulare vietato per un giorno, il fidanzato che non piace in famiglia: secondo lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, questi sono tutti fattori “precipitanti” che possono far scoppiare la violenza – contro altri o contro se stessi – tra gli adolescenti, ma non sono mai la causa vera dei delitti. «Dietro c’è sempre una relazione tra genitori e figli già danneggiata» dice l’esperto. «Puntare il dito contro motivi futili come l’uso dei social network è sbagliato. Oggi bisogna far convivere la vita virtuale e reale dei nostri ragazzi badando che non cadano in forme di dipendenza come sexting o cyberbullismo e che non diventino degli hikikomori, dei “ritirati sociali”.
È la nuova problematica che sta emergendo tra gli adolescenti e che diventerà emergenza. Riguarda circa 30.000 giovani: rifiutano il mondo, non vanno più a scuola, rimangono chiusi nella loro stanza e si isolano non sentendosi accettati. Hanno una dipendenza da Internet perché la relazione virtuale è l’ultimo disperato tentativo di rimanere agganciati alla realtà. Sono più maschi che femmine, passano ore giocando con un avatar ed evitano i social perché persino lì non avrebbero amici. Ai genitori consiglio sempre la massima attenzione: ci vuole anche un anno e mezzo per riconoscere il disagio. E, nel caso, mai alzare lo scontro in famiglia ma chiedere aiuto».