Uomini violenti: possibile recuperarli?

Un altro domani è possibile quando si maneggia una materia così delicata e spinosa come la violenza contro le donne? Possiamo pensare a un futuro diverso nel contrasto a questo fenomeno, che ha dimensioni mondiali ed è presente in tutte le culture e a tutte le latitudini? I registi del documentario Un altro domani (in tour in alcune sale italiane in questi giorni) ne sono certi.

Il protocollo Zeus per gli uomini violenti

Il documentario ci porta dentro ai Cuav (Centro per uomini autori di violenza) e ai programmi per il recupero degli uomini maltrattanti messi in campo al momento da 13 procure. Si tratta di una metodologia su cui si è iniziato a lavorare dal 2009 con il protocollo Zeus (dal re dell’Olimpo, il più noto dei maltrattanti), ideato da Alessandra Simone (ora a capo della questura di Savona). Siglato nel 2018 tra il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (CIPM) e la Divisione anticrimine della Questura di Milano, oggi è attivo in 55 città italiane. Il progetto è nato inizialmente per i sex offenders in carcere (gli autori di reati sessuali), e ora si sta allargando ai maltrattamenti in famiglia, sia in carcere sia sul territorio.

Uomini violenti: i corsi e la sospensione condizionale della pena

Spiega Claudia Pecorella, docente di Diritto penale e dell’insegnamento “Donne e violenza: prevenzione repressione” all’Università degli studi di Milano-Bicocca: «Il legislatore italiano, aderendo alle indicazioni della Convenzione di Istanbul del 2011 (art. 16), scommette su questo tipo di programmi, tanto che si è arrivati a subordinare alla partecipazione ad essi la concessione della sospensione condizionale della pena (quando inferiore a 2 anni) agli autori dei reati espressione della violenza di genere. Ricordiamoci che in precedenza la sospensione condizionale della pena, in questi stessi casi, era per lo più priva di alcun obbligo per il condannato, vuota cioè di contenuti». In pratica, prima, per ottenere la condizionale, il condannato non doveva più delinquere per cinque anni, pena la revoca. Adesso, quel tempo vuoto viene “sfruttato” costringendolo a seguire il programma.

I corsi a chi è già in carcere

«Allo stesso modo, un incentivo alla loro diffusione, anche all’interno delle mura del carcere, è derivato dalla previsione di possibili benefici (o meglio: di una valutazione positiva in vista della possibile concessione di un beneficio) per la partecipazione della persona condannata per quei reati e detenuta a trattamenti psicologici o a percorsi di reinserimento nella società e di recupero». Quindi se l’uomo condannato, già in carcere, partecipa ai corsi, il giudice può valutare eventuali benefici.

I corsi possono essere una soluzione per recuperare gli uomini violenti?

I corsi possono quindi rappresentare una soluzione al problema, insomma un altro domai? Cioè possiamo pensare che un uomo si riesca a “rieducare” in un anno? «Di sicuro questo è un piccolo tassello di un fenomeno complesso, un tentativo che comunque va fatto, anche se sappiamo che solo lavorando a livello culturale si potrà pensare di incidere in qualche modo sulla situazione» dice la professoressa Pecorella. «Il documentario mostra uomini del tutto inconsapevoli della violenza che realizzano e propensi quindi a minimizzarla e banalizzarla. Non si tratta certo di assolvere i responsabili o di assecondarli ma si deve anche prendere coscienza del fatto che il tempo trascorso in carcere spesso non produce alcun effetto, se non risulta addirittura controproducente». Nel 2022 gli ammonimenti sono stati 3.100. Secondo la dottoressa Simone, il 90% degli uomini che hanno intrapreso il percorso riabilitativo non ha più manifestato forme di violenza. Le recidive insomma si sarebbero drasticamente abbassate.

I fondi per i centri che recuperano gli uomini violenti

I centri antiviolenza però, storicamente frontiera solo femminile, un punto di approdo sicuro per sole donne, sono spaccati. A guidare il fronte critico è il Renata Fonte, gestito dall’associazione Donne insieme, la cui presidente Maria Luisa Toto punta il dito su un tasto dolente, poco raccontato: i fondi a disposizione. «La conferenza Stato Regioni nella seduta del 14 settembre 2022 ha stabilito, oltre ai criteri di realizzazione dei centri per uomini maltrattanti (requisiti degli operatori, edifici, metodi), la ripartizione dei fondi inizialmente destinati ai centri per le donne: 9 milioni di euro, che sono stati in parte sottratti a chi dovevano andare in origine».

Il “contatto donna partner”

Ma c’è di più. Nel documento finale che ha stabilito la nascita dei centri, si parla di “contatto donna partner”, quando in caso di violenza non deve essere ammessa nessuna forma di relazione. Il rischio di manipolazione e reiterazione della violenza è molto alto. «Dov’è finito il patto di alleanza che il centro antiviolenza stringe con la donna quando varca la porta del centro e chiede di iniziare un percorso di liberazione? Noi promettiamo alla donna che non entrerà mai in contatto con il violento, in questi programmi invece il contatto si prevede: ma dove avviene? Chi lo gestisce? Chi protegge la donna? Senza contare – come abbiamo visto noi stesse – che il colpevole di violenza con questi corsi si gioca la sua carta nel penale (il corso vale come espiazione della pena) ma anche nel civile, perché perfino durante il percorso può vedere i figli: per la legge, lo sappiamo, un padre è sempre un padre».

C’è il rischio che le donne denuncino sempre meno?

Il rischio, secondo il Renata Fonte, è che le donne denuncino ancora meno. «Un uomo violento che commette reato danneggia la donna e deve esser processato e condannato» afferma Maria Luisa Toto. «Ma deve espiare la sua colpa, altrimenti così distruggiamo l’idea stessa della vittima. Non c’è posto nelle carceri? Le carceri non funzionano? Non deve essere questo il motivo che spinge a “rieducare” gli uomini. Occorrono altri modelli di espiazione della pena se il sistema carcerario sta esplodendo. Nella violenza c’è un carnefice e una vittima, ma qui si è voluto cancellare il dolore delle donne: stiamo cancellando la vittima».

Cosa vuol dire agire da uomo violento

Nel documentario intervengono parecchi protagonisti impegnati nel contrasto alla violenza: entriamo nella sala operativa della questura di Milano, poi in alcuni Cuav, dove psicologhe e operatrici spiegano i meccanismi alla base del fenomeno. Incontriamo anche alcuni giudici impegnati su questo fronte, e così ascoltiamo dalle loro voci cosa vuol dire pensare e agire come un violento. Vuol dire «muoversi in un contesto di predominio», come spiega il giudice Fabio Roja, dove non necessariamente le vittime sono donne emarginate: la violenza infatti colpisce anche in contesti di benessere, economico e culturale, dove «le donne pensano di poter salvare la relazione spogliandola della parte di violenza e far così cambiare l’altro». Ma non c’è donna che possa far cambiare l’uomo violento, ci dice in video il criminologo Paolo Giulini. «Le donne sono dentro a un paradosso che non riescono a gestire perché hanno scelto quell’uomo, ma quell’uomo le fa stare male».

I giudici non credono alle donne

Denunciare (chi arriva a farlo, e comunque sempre troppo poche) raramente le aiuta perché «le procure non credono alle donne» dice il giudice Fabio Roja. Eppure a chi denuncia un furto d’auto non viene chiesto di fornire la prova, come spiega Francesco Menditto, procuratore di Tivoli: «Delle vittime di un furto non si pensa che vogliamo truffare l’assicurazione, perché invece alle donne che denunciano la violenza si mettono dei paletti sminuendo e derubricando il reato, confondendo cioè la violenza col conflitto?».

In questo palcoscenico così affollato, dove ciascun attore recita il proprio copione, alla fine restano in scena loro, le vittime, con storie strazianti e crude. Loro un altro domani se lo sono ricostruito, ma sole.