«Una mucca al mercato del bestiame». Per anni Serena Piva, 42 anni e un posto come responsabile ufficio stranieri nella Cgil a Lecco, ha pubblicato le foto del suo viso sul profilo Facebook, senza mai lontanamente immaginare che un giorno si sarebbe sentita così. Ha pensato di essere finita in un brutto film di serie B quando ha scoperto di essere una delle protagoniste del “catalogo” intitolato Le donne single di Lecco: un ebook compilato da un balordo, con foto e informazioni scaricate dagli account di 1.218 donne, tutte residenti nel comune lombardo e tutte “libere”. Era in vendita online a poco meno di 7 euro, sotto la copertina il claim Al costo di un solo drink!
«Sui social posto le foto del mio topolino, dei miei viaggi, mai nulla di allusivo» racconta Serena. «E, come me, le altre vittime: vedove, divorziate, anziane e minorenni, che all’epoca avevano anche 15 anni. Ritrovarsi “in vendita” è stato uno shock, alcune sono cadute in depressione. È stata dura anche per me, che sono abituata a risolvere sempre le cose da sola. Io, che lavoro dalla parte degli indifesi a un tratto mi sono sentita come loro, senza difese. Il pensiero di essere “nelle mani” di chissà chi, che qualcuno sapesse dove vivevo e che abitavo sola mi ha angosciato per mesi».
In 28 hanno comprato quel catalogo, poi il caso ha voluto che una delle vittime notasse l’ebook su un sito di autopubblicazioni. Ci sono state le denunce e l’inchiesta, chiusa a maggio con una condanna a 18 mesi di reclusione per diffamazione e violazione della privacy, e un risarcimento di 1.000 euro per ogni vittima.
Nel sottobosco del dark web
Vicenda chiusa, se non fosse che quel catalogo non è solo un tentativo maldestro di un improvvisato. Nel sottobosco del dark web la circolazione di foto di donne comuni, rubacchiate dai social e usate come merce di scambio, è fenomeno diffuso: non si tratta di scatti intimi o video hard, ma di immagini normalissime, quotidiane.
«Conosciamo il revenge porn, ex partner o partner che inviano foto e video hot delle compagne, ma la diffusione non consensuale di immagini va oltre questo perimetro» spiega Matteo Flora, presidente di Permesso negato, associazione che offre assistenza tecnologica e legale alle vittime di pornografia non consensuale e violenza online (www.permessonegato.it). «La Rete e i social come Telegram sono popolati da gruppi e forum dove gli utenti, assieme a contenuti hard, scambiano anche istantanee banali, magari foto in costume da bagno pubblicate dalle stesse vittime. A volte le foto sono anonime, altre accompagnate da nome, cognome e coordinate social». Solo qualche mese fa una 18enne ha denunciato gli amministratori di un gruppo Telegram per questa ragione. I suoi selfie postati su Twitter venivano fatti circolare e seguiti da scariche di commenti sessisti e violenti. «Cosa faresti a una così?» la domanda implicita.
Foto di donne scambiate come figurine
Il “gioco” consiste nello scambiarsi il materiale, proprio come fanno i bimbi con le figurine dei calciatori. Ciascuno invia all’altro il proprio archivio personale, di solito a tema. Per esempio, nei gruppi capita spesso di leggere frasi come: “Scambio immagini di 2006-2007 con vip”, dove la data sta per l’anno di nascita. Sono guardoni, ma non solo. «Molti postano foto e invitano gli altri a lasciare i loro tributi, che possono essere commenti volgari, insulti, ma anche video mentre ci si masturba su quell’immagine» racconta Flora.
Se c’è un dopo non è dato saperlo. «Spesso però hanno tutte le informazioni per raggiungere le protagoniste degli scatti. Ci sono anche i cosiddetti “pick up artist”, uomini che, individuata la preda, iniziano un’attività di dossieraggio studiandone i profili social: dai viaggi alla playlist di Spotify, dai film preferiti alle pagine a cui hanno messo il like. E una volta ottenuti questi dati li usano per agganciare le donne».
Telegram ignora le richieste di rimozione
Gli utenti dei vari gruppi e forum di scambio sarebbero più di 8 milioni, secondo le stime di Permesso negato, e il 60% di loro è iscritto a più gruppi. «Ma anche se fossero 1 milione sarebbe spaventoso. Sono soprattutto giovani, dai Millennial in giù: vivono questo gioco con leggerezza, per loro è una bravata» spiega Flora. Fermare canali e gruppi chiusi nel sottobosco web è difficile. «Sistematicamente li segnaliamo alle autorità, ma non otteniamo grandi risultati, anche perché Telegram ignora le richieste di rimozione. Servirebbe un’azione incisiva, come è successo quando sono stati bloccati i canali che diffondevano clandestinamente i giornali online» continua l’esperto. Se ne avesse la volontà, il social potrebbe agire, proprio come fa contro la diffusione di materiale pedopornografico.
È difficile che le vittime scoprano di esserlo
Non solo. «È difficile che le vittime scoprano di esserlo» spiega Marisa Marraffino, l’avvocata che ha seguito molte donne di Lecco, esperta di privacy e di revenge porn. «E, se accade, temono le ripercussioni di sporgere denuncia». Anche chi non è protagonista di scatti imbarazzanti prova un senso di vergogna, perché di fondo domina ancora l’antico pregiudizio del “te la sei cercata”, che si dice alle ragazze in minigonna che venivano stuprate. Ci si colpevolizza per il solo fatto di avere postato le proprie immagini».
Serena si è sentita proprio così. «Quando in ufficio hanno saputo del catalogo è stato difficile digerire certe battute. Mi chiedevano scherzando: “Cosa hai combinato?”. Come se nell’ebook mi ci fossi messa io. E al processo, la prima cosa che mi è stata chiesta è se mi fossi mai iscritta a un sito di incontri online, come se questo autorizzasse chicchessia a mettermi in vetrina». La sentenza di Lecco ha segnato comunque una vittoria importante, sottolinea l’avvocata Marraffino: «Un tribunale ha finalmente stabilito che prelevare immagini di altri, benché pubbliche, e farne un uso inappropriato, non è una bravata, ma è un reato. E va punito. Perché pubblicare su un social la propria foto non significa automaticamente autorizzare qualcuno a farne ciò che vuole».
Come difendersi
Non è semplice difendersi, e il più delle volte si ha la sensazione di voler svuotare il mare con un secchiello. Ma reagire contro chi usa la nostra immagine sul web è possibile, come spiega Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali. «Abbiamo il diritto di avere il controllo delle immagini che ci ritraggono, anche se pubbliche, esattamente come lo abbiamo per tutto ciò che ci riguarda» premette l’avvocato. «Se vengono fatte circolare senza consenso in un contesto diverso da quello in cui sono state generate, c’è una violazione della privacy».
Se la pubblicazione è su social come Facebook, Twitter o Instagram possiamo chiedere la rimozione al social stesso. «Se i file circolano in gruppi chiusi come le chat di WhatsApp e Telegram va contattato l’amministratore del gruppo» continua l’esperto. E se la richiesta resta inascoltata? «Ci si rivolge al Garante per la privacy per chiedere che ordini ai social la rimozione: le grandi piattaforme si sono mostrate molto collaborative. Resta il problema di Telegram, che non ha una sede legale nei Paesi occidentali. Per noi risulta difficile anche notificare i provvedimenti al social». La vittima può però sporgere denuncia alla Polizia postale. «Se lo scatto non è compromettente non si configura il reato di revenge porn, ma se è abbinato a un altro contenuto, o ci sono insulti, si può parlare di incitamento all’odio o alla violenza, o di diffamazione. E si apre un’inchiesta».
Una proposta di legge contro il Deep Nude
Sono fuorilegge, ma sui canali Telgram e sui gruppi privati spopolano le applicazioni di “Deep Nude,” che permettono di “spogliare” le donne ritratte in fotografia. Tanto che la deputata Sabrina De Carlo ha formato una proposta di legge per frenare il fenomeno.
La proposta prevede l’inserimento nel Codice penale di un articolo (il 612 quater) che prevede pene per chi invia, cede, pubblica o diffonde immagini di nudo manipolate appartenenti a persone fisiche riconoscibili. È prevista una multa da 6.000 a 16.000 euro e la reclusione da 2 a 7 anni, con pene aumentate nel caso in cui il reato sia commesso da un parente.