ll nostro obiettivo non è far pescare di meno, ma meglio. Il che vuol dire valutare, in base a dati scientifici, quanto e quale pesce lasciare in mare perché le specie possano riprodursi. In caso contrario, metteremmo a rischio l’ecosistema, le nostre riserve alimentari e le migliaia di posti di lavoro che in Italia sono legate al mare». Francesca Oppia è oggi a capo di MSC – Marine Stewardship Council Italia, la filiale nazionale di un’organizzazione non profit internazionale che promuove la pesca sostenibile. Ma fino a 5 anni fa questa manager 47enne dai capelli mossi non sapeva nulla di pesce. Al punto che, quando si è candidata alla posizione che occupa adesso, suo marito ha cercato di consolarla preventivamente: «Non prendertela se non ti scelgono».
Perché è nata MSC?
«Nel 1992 la pesca intensiva del merluzzo atlantico portò quasi all’esaurimento dello stock ittico. Il governo canadese intervenne per fermarne la cattura, e impedire che 35.000 persone perdessero la loro unica fonte di sussistenza. Di fronte al pericolo ambientale ed economico, per evitare che un tale sfruttamento eccessivo potesse ripetersi, venne fondato MSC: è un organismo indipendente presente in 100 Paesi, che oggi certifica il 15% del pescato globale secondo uno standard preciso».
Ovvero?
«Abbiamo stabilito delle regole che favoriscono la sostenibilità della pesca, ma senza penalizzare chi la pratica. Tramite il nostro marchio valorizziamo i prodotti e aumentiamo anche il margine di guadagno, grazie a prezzi migliori e a una riduzione dei costi. Se il mare si spopola, una barca dovrà spingersi sempre più al largo per raccogliere una certa quantità di pesce e il pescatore spenderà di più in combustibile e in tempo. Quindi, se insieme possiamo fermarci prima, è anche nell’interesse dei lavoratori».
Com’è la situazione nel Mediterraneo?
«La domanda di pesce è superiore alla disponibilità: sia perché abbiamo abusato delle risorse presenti, sia perché il cambiamento climatico ha sfoltito la fauna marina. Il paradosso è che, pur essendo circondata dal mare, a marzo di quest’anno l’Italia ha finito la propria autosufficienza, 4 mesi prima di tutti gli altri Paesi europei: da allora in poi mangiamo solo pesce importato. L’ente per cui lavoro non solo si occupa che non si esaurisca il pescato nelle nostre acque, ma si assicura che anche quello importato, congelato o meno, rispetti gli standard di sostenibilità. Oggi l’Italia, con 400 milioni di euro, si colloca al 5° posto per fatturato e al 7° posto per volume di prodotti certificati MSC, per un totale di 30.217 tonnellate di alimenti».
Non sarebbe meglio per l’ambiente se non mangiassimo più pesce?
«No, perché manderemmo sul lastrico i pescatori e le loro famiglie. Anche nell’attuare piani di gestione necessari per la sopravvivenza di una specie occorre tenere conto delle conseguenze sull’ecosistema, soprattutto quando questa specie si trova all’apice della catena alimentare: per esempio, l’aumento degli esemplari di tonno rosso ha un impatto diretto sullo stock di acciughe nel Mediterraneo. In natura occorre equilibrio: se smettessimo di colpo di consumare pesce questo equilibrio si romperebbe. L’allevamento è solo un aspetto della soluzione perché soddisfa in parte la domanda, ma ha comunque un impatto ambientale e per questo è importante che venga gestito in modo sostenibile».
Come mai ha un team composto di sole donne?
«Perché quando ho incontrato i candidati le più coinvolte nel progetto erano loro. Secondo me, anche se l’86% delle persone che lavora nella pesca è uomo, la sostenibilità è donna. Siamo più lungimiranti, forse perché ci viene naturale pensare al futuro dei nostri figli. Io stessa, dopo aver lavorato per 2 multinazionali, ho deciso di passare a Unicef e poi a MSC per lasciare il mondo un po’ meglio di come l’ho trovato. Però, sia chiaro, la collaborazione con gli uomini è fondamentale. Pensi che nella squadra amatoriale di basket in cui gioco sono l’unica donna in mezzo a tutti maschi. Lo sport è la mia passione, e il mio sfogo: appena posso vado a correre».
I suoi 2 bambini, di 11 e 12 anni, mangiano pesce?
«Da figli di una sarda come me, amano la fregola con i polpi e vogliono assaggiare le ostriche. Poi, avendo vissuto a Londra, quando io e mio marito lavoravamo là, si sono abituati a sperimentare piatti etnici. Il vero “fallimento” è stato quando ho dato loro dei burger vegetali. Mio figlio mi ha rimproverato di aver “infangato la tradizione delle polpette di carne della nonna”».