«Cosa importa quello che pensa chi sfilava in corteo, come me, o chi stava nel mezzo, come te? Alla fine questa è una storia che hanno scritto gli altri». Marco mi fucila con gli occhi mentre scandisco le sillabe Gi-ot-to. Io del movimento ero solo un frequentatore passivo, quello che va ai concerti ma non alle assemblee. E nel luglio 2001, quando la mia città natale stava per accogliere l’annuale vertice dei capi di Stato delle 8 maggiori economie mondiali e contemporaneamente la più grande manifestazione no global della storia, facevo già da qualche mese il giornalista mischiando impreparazione e forzata neutralità. Per questo prima di scrivere ho fatto due chiacchiere con Marco, che contro quel G8 ci ha sbattuto la testa, non solo metaforicamente, come può accaderti soltanto nel pieno della tempesta ideologica e ormonale dei 20 anni.
Migliaia di ragazzi da tutta Europa
«Il primo ricordo che ho è quello dei treni che arrivavano uno dopo l’altro alla stazione Brignole il 18 luglio, prima che chiudessero il traffico ferroviario: migliaia di ragazzi da tutta Europa, migliaia di ragazzi che ridevano» racconta Marco. Non c’erano solo giovani antagonisti, in realtà. Dietro slogan come Un altro mondo è possibile e Voi 8 in gabbia a decidere, 6 miliardi fuori a urlare si erano saldate personalità di ogni tipo: militanti di estrema sinistra e dei centri sociali, ma anche pacifisti e sindacalisti dai capelli bianchi, associazioni cattoliche, scout, ecologisti, realtà come Emergency, preti, suore. Puntavano a circondare simbolicamente la zona rossa, ritagliata fra il centro città e il porto, dove si teneva il summit che governo e forze dell’ordine avevano preparato per mesi in un clima di crescente tensione. Di qua le delegazioni di Italia, Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Canada, Russia e Giappone. Di là i manifestanti, oltre 300.000.
A dividere i due mondi, una barriera di filo spinato, cancellate, container e 17.000 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e militari. I cecchini della CIA sui tetti e i caruggi sulle prime pagine di tutto il mondo. Straniante ma appagante, per una città che non si è mai rassegnata a diventare provincia. Il primo giorno filò tutto liscio: un corteo colorato, partecipato, senza gli incidenti che tutti davano per scontati. Confesso che, col mio caschetto da bici su cui avevo scritto Stampa e le bottigliette di acqua e limone da passare sulla faccia in caso di lacrimogeni, riflettei sul mio scarso fiuto da cronista. Ma il giorno dopo acqua e limone mi durarono meno di due ore. La situazione era precipitata e interi quartieri sembravano in guerra.
I black bloc
Marco ricorda di aver pianto, quel pomeriggio, rannicchiato su un marciapiede all’angolo tra via Tolemaide e via Armenia. Mentre era terra, stordito dalle manganellate, ha incrociato lo sguardo tronfio di un black bloc, la bocca coperta da una maschera antigas, che mulinava pugni in aria per salutare la riuscita devastazione. Quelle figure nere che si sono mischiate alle prime file e, avvolte in fumogeni rossi, hanno sfoderato pietre, bastoni e molotov, restano uno degli enigmi di quei giorni. Sparite ogni volta che si avvicinavano le forze dell’ordine, che a loro volta si rifacevano sui manifestanti più pacifici, o solo meno veloci a fuggire.
Lo si sapeva: «Facciamo due cortei distinti», aveva chiesto qualcuno in assemblea. Sarà stato il timore della disciplina o di essere in pochi, fatto sta che si è permesso che si infiltrassero. Nessuna presa di posizione collettiva per respingere i disturbatori, scarsa dimestichezza con le dinamiche dello scontro e un “nemico” composto per la maggior parte da agenti senza esperienza, trascinati nel gorgo di una reazione sempre più violenta dai reparti d’élite che incitavano al massacro e da una catena di comando feroce e mal esplicitata. In quel clima, molti pensarono che un cadavere a fine giornata era il minimo che potesse capitare.
Le figure nere che si sono mischiate alle prime file e hanno sfoderato bastoni e molotov restano uno degli enigmi di quei giorni. Sparite ogni volta che si avvicinavano le forze dell’ordine, che si rifacevano sui manifestanti più pacifici, o solo meno veloci a fuggire
La morte di Carlo Giuliani
Quando hanno ucciso Carlo Giuliani, Marco era a poche centinaia di metri da lì ma non ha visto nulla, né sentito gli spari. «C’erano cariche ovunque, piazza Alimonda era una delle tante, si scappava in ogni direzione e poi non era ancora epoca di smartphone: quando le voci hanno cominciato a circolare erano confuse, si parlava di un manifestante con i capelli rossi, probabilmente straniero». Il rosso invece era quello del sangue di cui era imbrattata la testa di Carlo. Che era italiano, anzi genovese, come Marco e me, e quasi nostro coetaneo.
Io ero ancora più distante da lì, seguivo un gruppo di anarchici che lanciò un paio di molotov contro il carcere di Marassi (seconda prova del mio scarso fiuto da cronista) e le immagini le vidi solo la sera tardi. Ma su quel che è successo non ho mai cambiato idea. Giuliani aveva un passamontagna e un estintore in mano dentro una guerriglia che imperversava da ore. E i processi hanno ricostruito che i mezzi dei carabinieri effettuarono una manovra sbagliata lasciando indietro una sola jeep, che una recluta impreparata e presa dal panico sparò, forse non per uccidere ma certo neppure in aria come avrebbe dovuto, e che il corpo di Carlo fu oltraggiato, dopo, da una sassata in testa, nel tentativo spregevole e rozzo di camuffare la realtà.
Il 21 luglio gli scontri diventarono ancora più feroci
Il 21 luglio, mentre Bush, Berlusconi, Schroeder, Blair e compagnia stavano già per tornare a casa, gli scontri diventarono ancora più feroci. Il corteo principale stava scendendo verso il mare, seguendo un percorso tracciato fra alte mura di container su cui qualcuno con lo spray aveva scritto Carlo vive, quando fu spezzato in più tronconi. Panico, manganellate, centinaia di feriti. Fu una fortuna se in quei giorni mezza città si scoprì solidale con i manifestanti: c’era sempre un portone che si apriva caritatevole o una finestra da cui qualcuno urlava Sto registrando! evitando ai manifestanti guai peggiori.
L’altra metà dei genovesi era fuggita anticipando le ferie d’agosto, oppure rimaneva barricata in casa con scorte alimentari e tasto rapido di chiamata programmato sul 113, mentre osservava i roghi e le cariche alla tv. Una rete locale ebbe l’idea di tenere H24 i telefoni aperti, e davanti ai conduttori silenti si alternavano i genovesi incazzati (La polizia sta picchiando senza senso!), gli imbarazzati (Anch’io sono contro la globalizzazione ma non era questo che volevo!) e i soddisfatti (Finalmente qualcuno che mette in riga queste zecche!). All’ultima categoria apparteneva anche buona parte di chi indossava una divisa. Io stesso li ho sentiti cantare Uno di meno mentre compatti come una falange andavano a cena prima di dedicarsi all’ultimo obbrobrio: la Diaz.
Quello che successe alla Diaz
«In piazza vige una regola non scritta, sempre la stessa, almeno da quando siamo in democrazia» riflette Marco. «Durante i cortei le botte si danno e si prendono, devi metterlo in conto. Con la Diaz, invece, fu come se lo Stato avesse insegnato a migliaia di giovani cittadini che si affacciavano all’età adulta e all’attivismo che anche chi veniva in pace, anche chi era rimasto ai margini del conflitto, chi stava là solo per dormire qualche ora, non aveva diritti».
Quella sera ero lì davanti ma, convinto che ormai tutto fosse finito (terza prova del mio scarso fiuto da cronista), andai via mezz’ora prima dell’irruzione. Però la scuola ne portava ancora i segni il mattino dopo, quando una funzionaria della questura ci accompagnò brevemente all’interno per spiegarci che dentro si custodivano molotov e spranghe: abbiamo scoperto anni dopo che le prime furono portate lì dalle forze dell’ordine e le seconde provenivano da un cantiere poco distante. Ci disse che la Diaz era l’infermeria del famigerato blocco nero, e i manifestanti si erano feriti prima del blitz: ma non rispose quando le chiedemmo perché allora fossimo circondati da litri di sangue fresco. Uscii di corsa per vomitare. Ci sono voluti 15 anni perché la Corte europea dei diritti dell’uomo, imponendo un risarcimento di Stato ai feriti di quella notte, definisse ciò che è successo lì dentro come ciò che davvero fu: tortura.
Quello che è successo alla diaz è stato definito tortura solo dopo 15 anni. E a partire dal giorno dopo tutto è finito, con la politica che ha ridotto le manifestazioni di genova a un dibattito fra pro e contro
«Dopo quei giorni smettemmo di lottare»
Il 22 luglio 2001 tutto è finito davvero. Forse per sempre. La politica ha ridotto in fretta la complessità di quei giorni a uno sterile dibattito fra pro e contro sovrapponendo, di fatto, un movimento eterogeneo, concreto e spontaneo agli scontri con la polizia, alle scritte sui muri, all’imbrattamento senza scopo della città, alla vuotezza di contenuti. «Quella che doveva essere una spinta si è rivelata un boomerang, e dopo allora il movimento si è spaccato, sgonfiato, disilluso» conclude Marco. «Finché un giorno ci siamo accorti che a parlare di ambiente da salvare e Stati senza muri ci sono ragazzi nemmeno nati allora, ignari di quanto siano fortunati nel manifestare senza il bisogno di cercare sempre con gli occhi una via di fuga. Bello, eh, ma abbiamo perso vent’anni. Senza contare temi come lo strapotere delle multinazionali, l’identità di popoli e territori, il lavoro messo in pericolo dalla globalizzazione: tutte istanze finite nel catalogo delle destre populiste, oltre che ormai forse impossibili da realizzare».
A me, ma credo a molti altri, sarebbe piaciuto che quei giorni di delirio servissero almeno a tirare alcuni di questi fili. Invece nessuno lo ha fatto. «Te l’ho detto che la storia la scrivono sempre gli altri» fa Marco prima di riagganciare.