Un pugno allo stomaco. Se dovessimo scegliere una metafora per descrivere Matrigna (Solferino), l’ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, questa sarebbe la più calzante. Perché la scrittrice mette in scena una dinamica inconfessabile: la predilezione di una madre per uno dei due figli. La donna raccontata, infatti, è mamma per il primogenito, un piccolo perfetto e tutto da amare. Si trasforma in matrigna, invece, con la secondogenita, una ragazzina ordinaria e silenziosa. Al di là degli estremi, questo è un sentimento che spesso proviamo. E cerchiamo di cancellare. Ma è la strada giusta?
Dobbiamo ammetterlo: tutte (o quasi) siamo legate ai nostri bambini in modo diverso
«È questo l’aggettivo giusto da usare: diverso. Il sentimento ha declinazioni differenti perché ogni individuo è unico, ha le sue specificità e richiede un’attenzione peculiare» spiega Elisabetta Rossini, pedagogista ed esperta di relazioni famigliari. E il rapporto tra genitori e figli è così complesso e ricco di sfaccettature che non può essere ridotto a una scala di più o meno. Ma noi mamme spesso non riusciamo a mettere a fuoco e a razionalizzare questo passaggio, anche se apparentemente logico e naturale, e ci facciamo travolgere dal senso di colpa. «Che arriva quando diventiamo madri, come se facesse parte del nuovo status. Con la seconda maternità, poi, questo meccanismo si amplifica: non abbiamo energie per entrambi, sentiamo di sbagliare tutto. Ma non è così e dobbiamo ripetercelo come un mantra» spiega l’esperta. Quindi farsi prosciugare da questa emozione negativa è una perdita di tempo ed energie. Che è meglio investire in altro.
«Purtroppo quando si entra nel vortice dei rimorsi si perde di vista l’obiettivo e si incappa solo in una sequela di piccoli sbagli, che rendono il tutto ancora più frustrante» prosegue la pedagogista. «Allora, per cambiare rotta e uscire dalla spirale del senso di colpa basta fare una cosa semplice ma spesso dimenticata: prendersi del tempo per osservare bene i nostri cuccioli, mentre giocano o anche solo quando facciamo una passeggiata in città. Così, infatti, riusciamo a capire chi sono e di cosa hanno davvero bisogno e moduliamo le nostre premure di conseguenza. Con uno ci divertiamo perché abbiamo la stessa ironia o condividiamo il medesimo hobby? Perfetto, con l’altro possiamo scoprire il piacere di leggere o di chiacchierare fitto fitto prima di andare a dormire». Personalizzare il sentimento, quindi, da fattore negativo spesso vissuto ancora come un tabù può diventare una risorsa, un modo speciale per prendersi cura dei piccoli perché non appiattisce l’amore. Anzi, lo alimenta.
Fare differenze non significa necessariamente tradurle in preferenze
«È naturale sentirsi affini a chi ci assomiglia perché il diverso è ignoto e, come tale, spaventa» aggiunge Vittoria Baruffaldi, insegnante di filosofia e autrice del saggio Esercizi di meraviglia (Einaudi). «Se rivediamo noi stesse in un figlio ci sentiamo orgogliose e scatta anche il gioco delle aspettative. Da mamme ci trasformiamo in divinità onnipotenti che programmano il futuro e il successo dei piccoli. È umano: abbiamo bisogno di una bella storia, un sogno, un obiettivo e se non l’abbiamo raggiunto con la nostra vita ci proviamo con la loro». Ma se per noi mamme ammettere di voler bene con questa modalità “su misura” può essere molto utile e liberatorio, forse non lo è altrettanto per i nostri figli.
«Partiamo dal presupposto che loro concettualizzano meno di noi» conclude Baruffaldi. «Ci accusano di voler più bene alla sorella, come ci urlano che siamo brutte e non li capiamo ma questo, lo scontro diretto con noi, è il loro modo di crearsi un’identità e un’autonomia». Certo, qualche “cicatrice” può restare. «Non sempre la gelosia si manifesta, ma sotto sotto può covare un senso di insicurezza in chi non si sente il prediletto» puntualizza la pedagogista Elisabetta Rossini. «Magari esplode a scoppio ritardato e si ripercuote sul rendimento scolastico o sui rapporti con i coetanei. Allora, bisogna concedersi del tempo esclusivo con lui, dargli un surplus di attenzioni, e sottolineare i suoi talenti e i piccoli successi. Perché non si senta più il “fratello di”, ma un individuo unico e speciale».