Abbiamo visto gli Stati Uniti d’America scendere in strada per due settimane di fila dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente di polizia. Abbiamo visto gli account Instagram di mezzo mondo oscurarsi in segno di lutto (oscurando, purtroppo, anche ciò che avrebbero dovuto mostrare: le strade e le piazze piene di gente in ginocchio e col pugno alzato). Abbiamo visto i fan della musica pop coreana invadere di video, fino a mandarle in crash, le app con cui la polizia riceve segnalazioni sulle posizioni dei cortei. Abbiamo visto, poi, il risvolto violento di una ribellione in gran parte pacifica: i saccheggi e le razzie nei negozi. Abbiamo visto, infine, una parte della polizia caricare i manifestanti disarmati e un’altra parte inginocchiarsi e tendere loro la mano.

Non è facile, per noi, capire come l’uccisione di un afroamericano possa aver provocato tutto questo. Il razzismo, negli Stati Uniti, ha una storia lunga e radici profonde. E per quanto esso sia una piaga che attraversa anche la nostra società, noi non abbiamo veramente idea di cosa significhi vivere in un Paese dove un pezzo di popolazione, ben identificato dal colore della pelle, accede a una istruzione, una sanità e lavori di serie B. Dove anche la legge è applicata in modo diverso. E questo nonostante un avvocato nero sia riuscito a diventare presidente per ben 8 anni.

Di fronte alla complessità, il mio modo di “marciare” è leggere, studiare, capire. C’è un testo che ritengo illuminante e che trovate sul web: l’articolo che Arnold Schwarzenegger ha scritto per The Atlantic. Lui, attore bianco, poi divenuto governatore della California, repubblicano moderato e perfetta incarnazione del sogno americano, ovvero di ciò che puoi raggiungere se ti impegni (e sei bianco), ha descritto ciò che prova un suo amico, nero, quando squilla il telefono nel cuore della notte. «La paura che suo figlio o suo fratello possano essere l’oggetto della prossima marcia». È la stessa paura con cui Sarah Ladipo Manyika, scrittrice di origine nigeriana che oggi insegna in California, ha cresciuto suo figlio. Raccomandandogli di non indossare la felpa col cappuccio e di non giocare con le pistole ad acqua. Semplici azioni che, se hai il colore della pelle sbagliato, possono indurre l’occhio delle forze dell’ordine a scambiarti per un nemico.

Una volta che noi italiani abbiamo capito, cosa possiamo fare? Batterci perché anche il nostro Paese faccia un piccolo importante passo avanti sulla strada dell’uguaglianza, varando una legge scritta da almeno 5 anni, ma mai ritenuta abbastanza strategica da essere approvata. Parlo dello ius soli, il diritto a essere cittadini italiani se si è nati nel Paese o se vi si è arrivati da piccoli. Non è una rivoluzione, anche perché, come ha detto la stilista italo-haitiana Stella Jean durante la manifestazione di domenica scorsa: «Lo ius soli è previsto dalla Costituzione. E tutti noi italiani siamo meticci, mettiamocelo bene in testa».