Attualmente ne ho una trentina, posizionati a mo’ di tetris sul ripiano più alto dell’armadio. Prima lì c’erano le scarpe col tacco, poi le priorità sono cambiate e, tra un SKUBB dell’Ikea e l’altro, i giochi da tavolo hanno preso il loro posto. Ora che ci penso, il mio armadio forse non ha fatto altro che riflettere i cambiamenti dei luoghi in cui ha scorso la mia vita sociale: dalla discoteca al ludo-pub in due nanosecondi dopo i venti. Zero pentimenti, sia chiaro, adoro i ludo-pub e ciò che contengono. Quando ci misi piede per la prima volta, non avevo ancora afferrato del tutto il potere che quei giochi chiusi in scatole di cartone meravigliosamente illustrate stavano esercitando su di me. Sul mio modo di godere l’amicizia e la disconnessione. Social e non sociale. L’ho capito qualche partita a Scarabeo dopo…
Giochiamo, e non navighiamo
Da che ricordo, sono sempre stata una fan di Ravensburger, Hasbro & Co. Nell’ultimo mese però, complici le rimpatriate familiari di Natale e dintorni, i giochi di società sono diventati a tutti gli effetti il mio Impero Romano. Hai presente quello svago che ti appassiona talmente tanto che inizi ad aspettare il fine settimana solo per dedicargli un tempo degno? Sì dai, quell’hobby in cui butteresti tutti i tuoi soldi se per qualche secondo perdessi tutto il tuo raziocinio. Ecco, io ho rischiato grosso lo scorso dicembre di fronte alla promo 3×2 del Toys Center. Comunque, la cosa curiosa, quella che ha dato il via a questo mio flusso di coscienza, è che di questo personalissimo guilty pleasure non ho praticamente prove. O meglio, non ho prove in medias res. Scatti di quel ripiano dell’armadio, li ho. Screen dei desiderata, li ho. Scatti del bottino nel baule della macchina, li ho. Quello che sorprendentemente mi manca sono le foto fatte durante le sessioni di gioco: che so, al tabellone un po’ disordinato a metà partita, al Dixit consunto della ludoteca, alla torre sbilenca di Jenga o alle strette di mano che solo i veri sportivi sanno stringere dopo aver clamorosamente perso a 7 Wonders e ricacciato indietro il magone della sconfitta. Di tutto quello che accade mentre giochiamo, nessuna traccia. Mica avevamo la FOMO di fotografare tutto?
Mi rendo conto che la sensazione di aver completamente dimenticato il telefono per tre o quattro ore agisce sul mio umore al pari della caffeina sull’energia del lunedì mattina. Mi rivitalizza. Voi non nativi digitali mi prenderete per pazza, ma per una come me che non ha neanche mai concepito una vita senza telefono (anche perché, purtroppo, ci lavora), scoprire di saperne fare a meno è un sollievo. Anzi, scoprire di stare meglio quando esce dal mio campo visivo e mentale, è un sollievo. È come stiracchiarsi dopo un’ibernazione, riprendere a sentire dopo un’anestesia.
Gen Z e giochi da tavolo: che gioia stare offline
Un po’ tutto quello che si prende a grandi dosi, a un certo punto, inizia a darti la nausea. E forse molti di noi Gen Z hanno fatto una bella indigestione di telefono e social. Molti miei coetanei iniziano a rifiutarli (i più risoluti sono già fuggiti da Instagram), a ignorarli, a voltarsi da un’altra parte (leggi: gioco analogico, telefono col filo, dump phone, giradischi, lettere scritte a mano…). Cercano occasioni in cui relegare il cellulare a uno strumento che usi per cronometrare una manche di Taboo e non per misurarti sempre e costantemente con la (apparente) soddisfazione altrui.
Hai presente quando entri in una profumeria, inizi a provare tante fragranze diverse e poi finisci per non distinguere più niente? Il tuo olfatto si è assuefatto, ha testato talmente tante proposte da non sapere più quale preferisce davvero. Penso che il sovraccarico digitale funzioni un po’ allo stesso modo: il contenitore dei nostri stimoli ha raggiunto il livello massimo di capacità e ha bisogno di ripartire da zero. Tornare indietro. Uscire dalla profumeria, respirare aria pulita, dotarsi di un foglio bianco per iniziare a riscrivere una modalità nuova di fiutare il proprio modo di stare al mondo. Ecco, quando gioco con i miei amici, seduti attorno a un tavolo qualunque, mangiando una fetta di pizza qualunque, di fronte a un mazzo degli scarti qualunque, mi sembra di respirare in modo diverso. Più lentamente. E di distinguere meglio i profumi. L’asma della vita online se ne va.
Il ludo-pub è il nuovo luogo d’incontro della Gen Z?
Di questo mio sproloquio ho trovato conferma in qualche altra umana testimonianza. Come quelle che ho letto in un articolo del New York Times dal titolo (come sempre) perfetto: “The Extremely Offline Joy of the Board Game Club”, “La gioia estremamente offline del Club dei Giochi da Tavolo”. Gli autori dicono che noi giovani (Gen Z e Millennials) siamo «affamati di interazioni personali» e «desiderosi di sfatare la reputazione da nerd, noiosi e ultracompetitivi dei club di gioco del passato». Sulla prima affermazione mi trovano pienamente d’accordo. Sulla seconda ecco, se penso a certi miei amici, ho qualche dubbio rispetto alla non competitività… Neanche uno invece sulla noia. Quando trascorriamo il sabato sera al ludo-pub (peraltro sempre pieno e dunque da prenotare con furbo anticipo), ci sembra di entrare in uno spazio sicuro, in un luogo di ritrovo che agisce davvero come un luogo di ritrovo. Un posto completamente diverso da quelli che frequentiamo online, dove siamo in tanti ma non siamo con gli altri. Tra quelle pareti piene di giochi numericamente ordinati, mi sento parte di qualcosa. Ogni gruppo di amici è riunito attorno a un tabellone o a un mazzo di carte, ma ognuno si sente connesso all’altro in un modo particolare. Come se nell’aria fosse sospeso un sentire, la percezione di avere qualcosa in comune ma niente da dimostrare.
Il ludo-pub è un perfetto “third place”, come vengono definiti in sociologia i posti che non sono né casa (“first place”) né lavoro (“second place”), ma appunto luoghi terzi in cui tu, semplicemente, sei. Non produci, non consumi, non performi. Solo slow fun, divertimento lento. Condividi un hobby, ti rilassi, ti (ri)connetti. E riesci finalmente a concepirti scisso dal lavoro che fai e dai panni che indossi in casa. Puoi permetterti di essere altro, senza aspettative, pressioni, ostentazioni. E sai cos’altro mi piace del ludo-pub? Che ci faccio scorta di tempo di qualità, che non potrebbe essere tale se venisse razionalizzato. Ci vado per restare, anche quattro ore se mi va, senza l’ansia dei tripli turni carpiati cronometrati al minuto per massimizzare i consumi. Capisci di essere in un terzo luogo quando ti senti a casa ma non sei a casa, quando sai di poterti scrollare di dosso le tensioni elettrostatiche che fuori dall’uscio non ti facevano stare tranquillo. Se hai già escluso palestra, biblioteca, parco, bar del quartiere e chiesa, fidati e prova a entrare in un ludo-pub. Ma dimenticati il Monopoly, perché i giochi si sono evoluti, sono moderni, più stimolanti e cooperativi. E porta con te gli amici giusti.
Quali giochi da tavolo piacciono alla Gen Z?
Mi porto avanti e lo dico subito: non lo so. Non è semplice raccogliere dati ufficiali sulle abitudini dei giovani rispetto ai giochi da tavolo. L’unico aiuto può arrivare dall’osservazione diretta (e infatti vi parlerò presto delle cinque persone che mi fanno compagnia in questa passione), dai trend nelle tipologie di giochi più venduti negli ultimi anni e dai numeri, che aiutano sempre a farsi un’idea. Secondo il rapporto di Grand View Research, il mercato globale dei giochi da tavolo è stato valutato circa 12,1 miliardi di dollari nel 2020 e si prevede che crescerà a un tasso di crescita annuo composto del 9,2% dal 2021 al 2028. Mentre in Italia lo stesso mercato è stimato a circa 1,7 miliardi di euro nel 2024, con una crescita annuale che si attesta tra il 10% e il 15%. E poi, non sapevo che solo nel nostro Paese oggi anno vengono lanciati 800 nuovi titoli. In una semplice scatola sono racchiuse delle quantità di genio e creatività cui normalmente non facciamo troppo caso. Designer, anche giovanissimi, continuano a esplorare meccaniche di gioco sempre nuove. Più interazione sociale e immersione nel gameplay, tanta cooperazione e tante esperienze coinvolgenti che incoraggiano la narrazione e la strategia. E poi c’è l’inclusività: a differenza di molti giochi del passato, adesso nella maggior parte dei games tutti i giocatori proseguono fino alla fine della partita, senza eliminazioni o esclusioni a porre fine alla magia.
Alla nostra combriccola piace giocare a Scarabeo (il grande classico di parole in scatola), Azul (un gioco astratto di piazzamento tessere, in cui siamo degli artisti della ceramica incaricati di decorare le pareti del Palazzo Reale di Evora), Colour Brain (un family game a quiz sui colori delle cose, che ogni volta scatena in noi dubbi esistenziali del tipo: che diamine di colori c’erano nel logo dell’MD?). Molto belli, anche se non semplicissimi, Scotland Yard e 7 Wonders. Dixit nel cuore, insieme a When I Dream e Exploding Kittens. Ah, poi c’è anche Awkward Guests (diciamo una versione più avanzata di Cluedo), su cui però non mi soffermo troppo perché perdo sempre e non sono affatto permalosa.
L’influenza dei giochi da tavolo sulle relazioni
Enorme tasto dolente, la permalosità. Per giocare ai giochi di società serve un CV piuttosto ricco di soft skills, tipo friends management. Devo dire che tutte le relazioni con i miei amici sono cambiate dopo averci giocato insieme (per il momento nessuna si è rotta, comunque). Ho scoperto che Alessandro è un competitivo nato, che io e Cristiana siamo più telepatiche di quanto pensassimo, che Giovanni è un eccezionale piastrellista, che Ilenia riflette tanto e fa rima con lealtà come un Toro che si rispetti e che Mirco dovrebbe essere tra quegli 800 designer che inscatolano le loro idee. Mentre ciascuno impersona qualcun altro – mostri, maghi o principesse – conosco lati dei miei amici che probabilmente non avrei notato in circostanze differenti. A volte certi giochi funzionano da TAC a contrasto per visualizzare aspetti nostri e degli altri su cui non ci eravamo mai fermati troppo a riflettere.
Ti spiego, ti guido, ti sfido. Ti presto, ti ispiro, ti consiglio. Dolcemente, fermamente, pazientemente, intensamente. Quanti verbi e avverbi a nutrire di azioni le nostre relazioni, durante una sessione di gioco. Di cosa vivrebbero, altrimenti? Di aggettivi, di preposizioni? Ad approfondire le vostre connessioni umane è ciò che fate insieme, e come lo fate, più di come vi descrivete, introducete o qualificate. Suggerire di nascosto. Leggersi nella mente quando siete nella stessa squadra ma non potete parlarvi. Mantenere la suspense. Intrattenere. Prevedere le mosse, stupire, imbrogliare, mentire, eseguire. Occhiolini, strette di mano, scambi di carte. Le dinamiche del gioco si riflettono fuori dal gioco, trasferendosi dalle pedine a chi le muove. Creando un clima di interconnessioni che Instagram può solo sognarsi.
E tu, a che velocità vai?
Poi succede anche che l’euforia da game si propaghi dal tavolo alla cucina. L’altro giorno su Instagram ho letto il commento di una signora: diceva che i giovani non invitano più a casa. Che hanno cucine da sogno ma non cucinano più. Che il tempo lento dello stare a casa attorno a un tavolo a chiacchierare è rimasto schiacciato dalla frenesia e dalla mancanza di ospitalità. Ho pensato che avesse ragione. Da quando i giochi da tavolo sono diventati importanti aggregatori dei miei affetti, quello stesso “tavolo” ha assunto nuovi contorni. E attenzione: ho iniziato a cucinare, che per me significa intravedere opzioni alternative alla pizza d’asporto. Che bello condividere così lo spazio della propria casa, lo stare insieme che si costruisce e non si delega. Si è risvegliato in me il senso della comunità e dell’abitare un luogo fisico, reale, che ha odore, gusto e consistenza. Ho trovato ritagli di semplicità e lentezza in un mondo che ci vuole tutti velocisti. E sono un po’ i momenti della resa dei conti. Badge timbrato, casa sistemata, spesa fatta. E ora? Cosa rimane a riempirti la vita quando i task di lavoro sono tutti chiusi e tu hai voglia di un third place? La verità è che ognuno ha il suo. Io, tu, loro: viaggiamo tutti a velocità diverse e nessuna è sbagliata. Per stare bene forse bisogna solo trovare chi ha un tachimetro simile al nostro.
Sotto la visiera di Mr. X
E comunque, a dire il vero, alla fine guardando con più attenzione, uno scatto delle nostre sessioni di gioco l’ho trovato. Uno solo. Nell’inquadratura c’è la mia amica Ilenia. O meglio, ciò che si vede del suo sorriso sotto la visiera a becco di Mr. X, del gioco Scotland Yard. È allora, davanti a quella foto, davanti a quella scoperta, che chiudo il cerchio dei miei ragionamenti. Forse i giochi da tavolo non mi hanno fatto dimenticare del telefono, mi hanno solo ricordato quando e come vale davvero la pena ricordarsene. Voglio imparare a prendere in mano il cellulare con la leggerezza calviniana di chi sa che nel mentre sta costruendo qualcos’altro di più importante. Come uno strumento di contorno utile a fotografare gli amici felici, o a dargli appuntamento al ludo-pub. Perché il tabellone di Scotland Yard è troppo grande e non lascia spazio ai cellulari sul tavolo, se non ai margini. O tra l’uno e l’altro allestimento dei giochi che contano davvero, quelli che ricorderemo. Persi o vinti poco importa. Forse è su una mise en place come questa che dovremmo giocare la partita della nostra esistenza, a qualsiasi “Gen” apparteniamo. Che la clessidra di Scarabeo non aspetta, e quella della vita nemmeno.