di Alessandra Mureddu, ex giocatrice compulsiva, autrice del libro Azzardo (Einaudi)

Il gioco d’azzardo è una dipendenza e la metà dei ludopatici sono donne. Qui la testimonianza di Alessandra Mureddu, ex giocatrice compulsiva, che ha scritto il suo primo libro: Azzardo.

Ho iniziato col gioco d’azzardo per salvare mio padre. Quando mamma non lo vedeva rincasare ai soliti orari si impensieriva e mi chiedeva aiuto.

Il padre con la passione del gioco d’azzardo

Papà era andato in pensione da poco e, non avendo mai avuto una passione che non fosse quella per il lavoro, non mi riusciva di immaginare dove potesse trascorrere le ore in cui non rispondeva neanche al telefono. Così, una domenica del 2006, seguendolo per le vie del quartiere Prati, lo vedo sparire dietro le porte oscurate dalle vetrofanie di un locale che, seppi dopo, era una delle prime sale da gioco di Roma.

L’impatto con la sala da gioco

«Vieni, è come al casinò!» mi dice per invogliarmi a entrare. Il locale è buio, privo di finestre. Una profumazione fortissima si accompagna al suono delle macchinette che sfilano lungo le pareti. Mio padre mi mette seduta su uno sgabello e infila una banconota da 50 euro nella fessura. Spinge il tasto “autostart” e i rulli cominciano a girare. Non capisco niente ma il contatore inizia a salire e mio padre, per la prima volta in vita sua, prima di allontanarsi mi dice: “Brava”. Chiedo alla vicina come fare a prendere i soldi, lei spinge un altro tasto e la macchina sputa un ticket con su scritto 900 euro. Vergognandomi, cerco con gli occhi la schiena di papà: si perde in mezzo a quella di tutti gli altri.

Alessandra Mureddu
GILIOLA-CHISTE

Padre e figlia complici nel gioco d’azzardo

Di lì a poco divento anche io una degli altri. Apre vicino casa mia una sala giochi, c’è l’inaugurazione a cui voglio partecipare, devo capire come funziona. Cerco, tra pagine di giochi diversi, quello che mi ha fatto vedere mio padre e ripeto i suoi gesti. Gioco d’azzardo, per un anno, senza dire niente a nessuno. Anzi, richiamo mio padre alle sue responsabilità, lui mi dice: «Pensa a fare la figlia». Gli amici di famiglia lo giustificano perché a casa non ha mai fatto mancare niente. Giocherò, per altri otto anni, ingaggiando con lui una sfida all’ultimo euro, dicendogli che se brucio in quel posto lo stipendio e l’importo mensile della carta di credito è colpa sua: lui mi coprirà sempre le spalle versandomi soldi sul conto, ma mai una volta proverà ad ascoltare il mio malessere.

Gli attacchi di panico

Ingrasso 20 chili. Non vado più al mare e non ho rapporti con nessuno. Giro con una tunica nera lunga fino ai piedi e un tutore alla mano destra per l’infiammazione al tunnel carpale che mi provocano le spinte continue sui pulsanti delle macchinette. Giuro a me stessa che non metterò mai più piede in una sala, l’indomani sono di nuovo lì a scegliere la macchina che mi farà dimenticare per qualche ora chi sono. Dico che gioco e che sto male a chiunque, tutti mi rispondono che di qualcosa si dovrà pur morire. Quando esco dalla sala conto i passi che mi separano da casa, gli attacchi di panico riprendono a mordere, vago nei supermercati notturni in cerca di biscotti a “zerovirgola” e non ho più soldi nemmeno per la pappa del cane. Non mi interessa più vincere, voglio perdere e dimostrarmi che sono un errore.

La vendita dell’oro della prima comunione

Ma c’è sempre un fondo più fondo. Decido che venderò l’oro, quello della prima comunione. «Mamma, vengo a prendermelo uno di questi giorni». Quando metto le mani sulle sacche che mia madre conserva nello sportello dietro un mobile, rovescio tutto sul pavimento e cerco di tradurre in euro: catenine, bracciali, il rosario coi rubini di nonna, i diamanti che papà comprò per me quando ero una ragazzina. Porto via tutto, nessuno mi dice niente. Il compro oro mi fa dei prezzi, accetto qualunque cifra, vedo staccare con violenza le pietre dai gioielli, prendo i soldi e in una manciata di ore in sala finisco l’equivalente di due anni di stipendio.

Il contatto con l’associazione che cura le vittime del gioco d’azzardo

«Ciao, mi chiamo Alessandra e sono una giocatrice compulsiva». Dal 22 maggio del 2015 questo è quello che ripeto, ogni domenica, nella stanza della chiesa anglicana di via Napoli, una delle sedi dell’associazione dei Giocatori Anonimi. È qui che racconto la mia storia, a persone che, come me, hanno sviluppato questa patologia e hanno il desiderio di smettere di giocare. Le sale da gioco erano piene di donne sole, come me, in questa stanza invece di donne ce ne sono poche. Il numero di telefono dell’associazione l’ho avuto da un uomo che giocava nella mia stessa sala. «Ho visto un programma in tv e parlavano di questo» mi ha detto. Si era stancato di sentirmi lamentare. Il giorno dopo ho chiamato e sono poi approdata all’interno di questa fratellanza cosiddetta dei 12 passi. Solo nel primo passo si parla di gioco, laddove ci si arrende all’idea che quest’ultimo ci ha reso la vita ingovernabile. I passi successivi, dal riconoscimento di un potere superiore al lavoro sui propri difetti di carattere, alle ammende da fare alle persone a cui abbiamo arrecato un torto, concorrono al raggiungimento di “un modo normale di pensare e di vivere”.

Il cambio di rotta

Durante i primi anni di frequentazione mi sono ripresa il corpo che credevo di aver abbandonato su uno sgabello e ho perso 12 chili. Ho sistemato casa e l’ho resa accogliente alla luce e alla pulizia. Si dice che la nostra sia una malattia emozionale, che ci porta a cercare risposte nei modi sbagliati. In questi ultimi tre anni, con l’aiuto della psichiatra e dei farmaci, e “un giorno alla volta” come recita il programma della nostra associazione, ho affrontato la morte di mia madre, quella del mio amatissimo cane e due attacchi psicotici. Eppure a giocare non sono andata più.

Una discesa verso l’inferno

A volte mi manca quell’adrenalina che sentivo scorrere nelle vene quando la macchinetta mi ricompensava con la combinazione vincente, ma se penso a tutto quello che ho perso, e non solo in termini di soldi ma anche e soprattutto di dignità e di tempo, negli anni cupi del mio gioco d’azzardo, non scambierei il peggiore giorno di oggi col migliore di ieri. Non potrò mai definirmi un’ex giocatrice compulsiva, non potrò più tornare a giocare socialmente: per me la prima giocata sarebbe come il primo sorso per un alcolista, e cioè il primo gradino di una discesa verso l’inferno. Per noi “costituisce gioco ogni scommessa, per soldi o per niente, non importa quanto piccola o insignificante, dove il risultato sia incerto o dipenda da fortuna o da abilità”. Papà nel frattempo è diventato un bambino, la sua demenza lo tiene al riparo dal mondo esterno. Non so se mi riconosce ancora ma mi sorride: voglio immaginare che sarebbe fiero di me.

Come uscire dalla dipendenza

Gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità che risalgono al 2018, e sicuramente sono al ribasso, ci dicono che il 36,4% degli italiani gioca. Con il Lotto, le lotterie istantanee, il Gratta e Vinci, ma soprattutto con le slot machine. «Macchine infernali, fisiche e digitali, che creano dipendenza grazie alla velocità. Ci vogliono meno di 4 secondi per veder comparire i 3 simboli uguali sul display» spiega Simone Feder, psicologo della comunità Casa del Giovane di Pavia e coordinatore del Movimento NoSlot. Un meccanismo diabolico che attiva gli stessi recettori cerebrali stimolati dalle droghe. La differenza è che a far scattare questa dipendenza non è una sostanza ma la dinamica ripetuta di un comportamento gratificante, che all’inizio alterna vincite a piccole perdite e ti dà l’illusione di sentirti meno solo ma poi ti inghiottisce, isolandoti.

Può succedere a chiunque

Non pensiamo che capiti solo agli altri: può succedere a chiunque. «Chi cade nella trappola delle slot perde il contatto con la vita: è come se fosse dissociato dalla realtà. Vive cioè quell’esperienza che chiamiamo “flow”, una specie di dimenticanza dello spazio e del tempo» continua l’esperto. Ma chi sono i giocatori? La maggior parte uomini tra i 40 e i 64 anni. «Le donne, però, aumentano: giocando cercano di anestetizzare la solitudine, di estraniarsi dai problemi. Il fatto è che si notano di meno perché nascondono meglio questa sofferenza e perché, per la vergogna, fanno più fatica a chiedere aiuto» spiega Feder. Esistono, però, dei “segnali-sentinella”. «Chi cade nella dipendenza da slot diventa più aggressivo, è soggetto a cambiamenti di umore, ansia e disturbi del sonno, modifica le amicizie e le abitudini alimentari». Liberarsi dalla dipendenza è possibile, con un percorso che di solito va dai 6 ai 12 mesi fatto di colloqui individuali e terapie di gruppo. Chi cerca aiuto può rivolgersi ai SerD, i servizi pubblici per le dipendenze, o ai centri privati convenzionati: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, i pazienti aumentano del 20% l’anno. M.B.