Immagina di essere una scrittrice. Immagina di cercare per anni una storia, la più preziosa. Immagina finalmente di trovarla. E poi immagina di bloccarti davanti alla pagina bianca a chiederti: ma posso farlo? Ho il diritto di raccontare questa storia? Quando sono venuto a conoscenza degli incredibili eventi che ebbero luogo nel campo nazista di Westerbork, dove un gruppo di internati ebrei – comici, attrici, cantanti e ballerine – mise in scena una lunga serie di spettacoli di cabaret, da un lato per intrattenere gli aguzzini nazisti ed essere risparmiati dalla deportazione, dall’altro per concedere un’ora di conforto ai compagni di detenzione, ho pensato di trovarmi in punta di dita la più terribile e meravigliosa storia di resistenza spirituale che avessi mai sentito, quella che più di ogni altra avrei voluto raccontare. E poi quella domanda: sì, ma posso farlo?
Ci sono storie che sembrano appartenere solo a chi le ha vissute e pagate con la propria sofferenza. Davanti a storie così, può essere un’indecenza sovrapporre la propria voce a quella dei testimoni. Ma cosa fare quando quei testimoni non sono sopravvissuti o la vecchiaia li ha naturalmente spenti? Cosa fare quando gli anni rischiano di cancellare il ricordo spingendolo sotto migliaia di pagine di cronaca più recente? Dobbiamo cristallizzare le testimonianze o possiamo rinnovarle attraverso il racconto? Etty Hillesum, scrittrice uccisa ad Auschwitz, in una lettera spedita proprio dal campo di Westerbork, appunta una frase di eccezionale lungimiranza: «Qui si potrebbero scrivere delle favole». Vittima della follia del mondo, Hillesum si pone da subito il problema di come raccontarla, quella follia, e trova una prima, folgorante, soluzione: è nella grammatica delle favole che si può dare forma a un caos che travalica i confini della realtà, tanto da diventare assurdo, indicibile, irreale.
Il racconto diventa allora una forma possibile, forse persino necessaria, per accendere un fiammifero nel buio di una tragedia che, ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, non ci permette di comprendere e descrivere la sua geografia. E quel fiammifero brilla specialmente per i giovani che, più di tutti, sono le orecchie a cui parlare. È a loro che si deve raccontare di draghi, orchi e ragazzi normali che furono vittime e carnefici in un tempo e in un mondo che non saranno mai troppo lontani. È a loro che bisogna mostrare l’abisso, senza il timore di impressionarli ma senza nemmeno la morbosità di chi esibisce un dolore che acceca.
E proprio la misura della creazione letteraria, mai davvero slegata dalla realtà, può costituire una porta aperta su una stanza fatta di testimonianze, diari, documenti, che chiedono di essere letti e approfonditi. Ricordati. Certo, questo non può costituire un lasciapassare narrativo a ogni penna che voglia mettere sulla pagina un dolore che non gli appartiene, piegandolo alle proprie esigenze emotive. Ci vogliono rispetto e compassione, attitudini che, più di ogni abilità a trovare l’aggettivo giusto, ogni scrittore è obbligato a esercitare nei confronti della materia di cui scrive. Vale per tutti, per chi racconta di amori contrastati, di commissari e investigatori, perfino di Biancaneve e Cenerentola. E vale a maggior ragione per chi intende confrontarsi con una materia terribile e delicata come la Shoah.
Se si riesce a essere all’altezza del compito, si può contribuire ad accendere un altro fiammifero e rischiarare un po’ di quel buio, per scoprire che la Shoah non è un orrore irripetibile che, senza criterio né ragione, è apparso sulla terra, ha imperversato per qualche anno, poi si è disperso. Può far comodo crederlo, ma non è così. Gli esseri umani: sono loro i responsabili, e noi, come tali, non possiamo dirci estranei a quanto è avvenuto. Ecco allora che il comandamento di vegliare affinché non accada mai più non significa aguzzare la vista per sorprendere l’arrivo del nemico, ma guardarsi dentro, per fare in modo che nessuno di noi diventi mai più quel nemico.
Ascoltare. Studiare. Riflettere. Soffocare l’ignoranza e la faciloneria. Spegnere gli istinti di opportunità e di disprezzo. Rifiutare l’indifferenza. Esercitare responsabilità e compassione. Raccontare. Sono alcuni degli innumerevoli strumenti che abbiamo per dare forma a uno spirito pieno e inclusivo. Perché parlare di Giornata della Memoria non vuol dire solo onorare chi ha subito la tragedia, vuol dire soprattutto farsi carico di conoscerla, quella tragedia, approfondirla, comprenderla. Vuol dire costruire una memoria anche per noi che siamo stati risparmiati, come si costruisce un tetto sotto cui ripararsi, una lingua con cui comunicare, un passato da condividere e, con un’urgenza sempre viva, scongiurare.
Il romanzo appena uscito
Questo articolo è stato scritto per noi da Federico Baccomo, autore di romanzi e sceneggiature di film e serie televisive. Il suo nuovo libro Cosa c’è da ridere. La storia del giovane comico ebreo che sfidò il nazismo (Mondadori) ha per protagonista Erich Adelman, un ragazzino che nella Berlino degli anni ’30 sogna di fare cabaret, ma viene travolto dalla Shoah. La sua vicenda mostra come intelligenza e umanità riescano, comunque, a vincere su grettezza e violenza.