Mi è capitato di lavorare con colleghi sotto i 30 anni poche volte. Sufficienti, però, per notare curiose ricorrenze. Tutti, per esempio, sono disposti a lavorare di sera o nei weekend (non ogni sera e ogni weekend, ma una cosa tipo: «Tranquilla, finisco stanotte, poi domani non ci sono, te lo ricordi?»). Molti entrano in crisi quando perdono di vista il senso: «Che valore ha ciò che sto facendo? Sicura che ti servo io per questo compito?». E talvolta, in risposta a richieste di correzioni: «Mi dispiace, non sono d’accordo, non le faccio».

In loro ho incrociato la presunzione di una giovane pianta che sta crescendo e deve difendersi per garantirsi di diventare esattamente ciò che ha in mente. Ma anche la libertà di chi costruisce la sua strada senza avere modelli a disposizione. Questo quadro non ha nulla a che fare con quanto emerge da un recente studio Iref-Acli che parla di “obbedienza preventiva alla precarietà”. Pare che il 35% dei ragazzi sarebbe disposto a rinunciare a dei diritti – lavorando nei giorni festivi, saltando le ferie, privandosi di parte dello stipendio o di giorni di malattia – pur di avere un posto. Come si spiega l’incrongruenza tra le due immagini? Forse ho incontrato componenti del rimanente 65%, che è pur sempre una super maggioranza. E probabilmente mi sono imbattuta in precari colti, che sono meno inclini a rinunciare ai diritti, come emerge dalla ricerca.

Da ciò, una prima considerazione: l’antidoto alla schiavitù, dalla notte dei tempi, è uno solo, l’istruzione. Che non deve necessariamente essere blasonata o prevedere lauree. Poi una seconda riflessione: al netto di diritti inalienabili, ce ne sono altri che forse sono relativi e vanno aggiornati. Diritti nati quando il lavoro era fisico, pericoloso, e un’ora di più poteva costarti la vita. Abdicare a quei diritti non è necessariamente una resa, ma un modo di ridisegnare il rapporto con il lavoro. E spesso si affianca alla tendenza a non farsi determinare da esso, a difendere la propria vita privata, a preferire uno stipendio più basso ma una qualità dell’esistenza più alta, che è un grande e misconosciuto pregio dei giovani. Dall’alto del nostro posto fisso etichettiamo i Millennials come sdraiati o come rassegnati. Invece dovremmo osservarli di più, essere buoni esempi e, perché no?, imparare qualcosa da loro.