«Zia, mi fai paura sempre attaccata a quel telefonino» dice mia nipote. Ha ragione: la mia giornata tipo prevede quasi 2 ore di social network, 30 like su Facebook, 10 cuoricini su Twitter e 5 tweet. La sua, invece, al massimo 2 battute su WhatsApp con le amiche. Niente cinguettii. E sul social di Zuckerberg, quando va bene, una comparsata ogni 3 settimane, giusto per infilare uno scatto di Londra o New York.
Sembriamo vicine, siamo lontane mille miglia, almeno nella vita digitale. Perché a 20 anni di stare a sbirciare le ultime imprese di parenti e conoscenti su Facebook, come faccio io, mia nipote non ci pensa proprio. Tanto meno la sfiora l’idea di postare foto di bimbi o gattini, come fa la maggior parte dei 35-55enni: ovvero il 37 % degli utenti, la fetta generazionale più grande secondo l’osservatorio Facebook sul blog di Vincenzo Cosenza, strategist di Blogmeter, società che monitora i social media. Aggiornare i “friends”, gli “amici virtuali”, per lei e per quelli della sua generazione è più una perdita di tempo che un arricchimento. I young millenial, come vengono chiamati i 20enni di oggi, hanno passato l’adolescenza su Internet, non conoscono una vita senza smartphone in mano, ma dei social tradizionali possono fare a meno.
Cosa li spinge a snobbare quegli strumenti che per noi delle generazioni più vecchie sono sinonimo di rete e libertà? «I motivi sono diversi» spiega Giuseppe Riva, professore di Psicologia della comunicazione e Psicologia delle nuove tecnologie della comunicazione all’università Cattolica di Milano. «I ragazzi fuggono dai social tradizionali come Facebook e Twitter perché lì ci sono mamma e papà. E poi perché, a differenza di noi, non hanno messaggi da lanciare». Per il professore, che a febbraio pubblica l’edizione aggiornata del suo saggio cult del 2010 I social network (il Mulino), «il panorama cambia velocemente, una generazione si sussegue all’altra e ribalta gli usi e le abitudini dei fratelli maggiori. Prendiamo i cosiddetti “founders”, appena identificati ed etichettati da Mtv. Hanno 14-15 anni, ma sono più pragmatici e indipendenti dei millenial. Su Facebook non ci vanno proprio. Usano WhatsApp per comunicare. Di dire al mondo ciò che pensano non gliene importa e i loro messaggi sono circoscritti al gruppo».
ALLE AMICIZIE VIRTUALI PREFERISCONO QUELLE REALI Al primo posto per i young millenial ci sono le amicizie, i legami forti. «Mentre la generazione precedente usava i social media soprattutto per mantenere i contatti con le persone che vedeva poco, quelli che vengono chiamati i legami deboli, i giovani oggi usano i social media per connettersi con le persone a cui tengono di più. Da questo punto di vista, quindi, Facebook non funziona, meglio Snapchat o WhatsApp» sostiene l’esperto di social Giuseppe Riva. Per la mia generazione, invece, Facebook è stato un salvagente: ci ha permesso di stare a galla nel mare di conoscenze accumulate nel corso degli anni a scuola, sul lavoro, negli spostamenti da una città all’altra. Per i nostri figli cambia tutto: chattano, ma tramite app, e bramano spazi tutti per loro, dove creare community, cerchi di persone in cui gli estranei non entrano (tanto più quei genitori che rivendicano una giovinezza infinita e “minacciano” la libertà dei ragazzi), per parlare con gli amici o con i compagni di classe o d’università. Coetanei con cui hanno una relazione vera. Perché per loro avere amicizie virtuali è inconcepibile.
CONDIVIDONO LE ESPERIENZE ATTRAVERSO LE APP Cresciuti tra la crisi e la fine del posto fisso, i giovani di oggi si sono trovati immersi in un sistema economico e di valori del tutto nuovo: i parametri tradizionali sono saltati, e ai siti di servizi sono subentrate le app. I young millenial, scrivono Howard Gardner e Katie Davis in Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale (Feltrinelli), «vedono il mondo e le loro stesse vite come una serie ordinata di app, o forse, in molti casi, come un’unica app che funziona dalla culla alla tomba». Strumenti agili che risolvono diversi compiti e che, se non esistono, vengono creati ad hoc. Ci sono app per farsi dare un passaggio, per dividere la casa, per trovare un partner e perfino gli amici. App che avvicinano le persone, che sono uno strumento per rafforzare degli interessi comuni, dei punti di vista, dei modi di vedere e “usare” il mondo. Parola d’ordine: condivisione. Proprio come Uber o Airbnb. L’ultima applicazione nata negli Usa, che va fortissimo tra i millenial, si chiama Squad e aiuta a costruirsi un gruppo o una compagnia. Anna Todd, 26 anni, fenomeno editoriale dell’anno con After (Sperling & Kupfer), ha scritto il romanzo per il 70% sullo smartphone e l’ha condiviso su Wattpad, una specie di social network di storie dove i giovani si raccontano e si improvvisano scrittori con l’aiuto (e le critiche) dei coetanei. «Nessuno dei miei amici però mi ha dato suggerimenti, perché nessuno sapeva che stavo scrivendo» mi ha detto. «Ma i commenti dei lettori del social mi hanno influenzato molto». La cosa è stata reciproca: After è pieno di citazioni di classici della letteratura e ogni volta che Anna ne parlava sulla piattaforma, si impennava la lettura di quei romanzi. E nascevano nuove amicizie e relazioni offline.
SI RACCONTANO CON LE IMMAGINI INVECE CHE CON I POST Se i giovanissimi scrivono le storie su Wattpad (che però fatica a prendere piede in Italia perché non esiste la sua versione tradotta), non è detto che amino parlare di sé. E più delle parole usano le immagini. «Il problema del testo è che è sempre diretto e chiaro. L’immagine rimanda a un non-detto» conferma Giuseppe Riva. «Per questo i giovani al posto di Twitter amano Instagram. Lo usano come termometro emotivo: quello che io penso e che provo lo esprimo con una foto che mostra quello che sto facendo adesso, dove sono, con chi sono… È un mezzo più velato e meno problematico: colpisce chi guarda il mio profilo, ma non sto dicendo le cose come stanno in modo esplicito».