«Le persone con disabilità non sono speciali. Sono un po’ contraria a questa retorica “buonista”. Siamo persone, come tutti. Solo che abbiamo una caratteristica più o meno evidente. Nel mio caso lo è». Giulia Lamarca lo ha detto qualche giorno fa in un video su YouTube in cui rispondeva alle domande più frequenti su Google a proposito di disabilità. Speciale, però, è la svolta che lei, 29 anni, in carrozzina da 10, ha saputo dare alle sue giornate, trasformando i limiti in risorse.
Ha viaggiato per i 5 continenti con Andrea, compagno e poi marito, in aereo, camper, auto, Interrail. Si è tuffata da un ponte in Australia, è salita – sulle spalle di Andrea – su per i gradoni del Machu Picchu. E quest’estate ha attraversato la Norvegia incinta all’ottavo mese. Ma Giulia non è una wonder woman: è una ragazza che ha deciso di riprendere in mano la sua vita dopo che a 19 anni le hanno detto che non avrebbe più camminato. E il viaggio per lei è diventato la rinascita, la consapevolezza che, anche senza muovere le gambe, molte cose può ancora farle.
Giulia ha raccontato tutto questo prima in un blog, My travels: the hard truth, poi sul suo profilo Instagram (@_giulia_lamarca), raccogliendo intorno a sé una community di migliaia di fan, viaggiatori e non. Ora pubblica un libro, Prometto che ti darò il mondo (De Agostini), in cui ripercorre gli ultimi 10 anni, a partire dall’incidente: il 6 ottobre 2011, lei seduta dietro sullo scooter del suo ragazzo di allora, una curva presa male. Poi i 9 mesi di ospedale, la solitudine, la difficile presa di coscienza, la non accettazione del proprio corpo fino all’anoressia. Dieci anni scanditi dalle difficoltà, ma anche dall’amore, dai viaggi importanti che le hanno insegnato la vita, dagli studi all’università. Soprattutto, dalle tante piccole scelte quotidiane che l’hanno portata a essere «libera, felice e orgogliosa».
Ciò che rimane impresso, della storia di Giulia, è il suo cambio di prospettiva. «Lo so, è brutto da dire, ma certe cose non le avrei capite se non fossi finita in carrozzina» mi racconta via Zoom da casa, dove sta finendo la gravidanza. «Ho imparato a dare importanza a ogni traguardo, anche piccolo. Al sapermela cavare, a essere indipendente. Pensa che quando mi sono laureata in Psicologia in tanti mi dicevano: “Ma non sarà un problema fare la psicologa in carrozzina?”». Oltre alle difficoltà oggettive, mi confida quelle emotive, le incomprensioni che ha dovuto affrontare. All’inizio, per incitarla le consigliavano di giocare a tennis in carrozzina, ma lei, che è sempre stata una sportiva, proprio non ci riusciva, le sembrava di rivivere le sensazioni “del prima”. «Il mondo propina un unico modo di essere disabile: lo sportivo. E io odiavo che quella fosse l’unica immagine accettata della disabilità» scrive nel libro.
Lei voleva essere altro: voleva muoversi. «Il viaggio è diventato un modo per sentirmi viva. Quasi una vocazione. Capita che io guardi un documentario o un film che mi colpisce e che mi spinge a dirmi: devo andare a vedere questo Paese perché può insegnarmi qualcosa. Poi il desiderio di partire arriva quando magari passo un periodo in cui sto veramente malissimo. Mi metto in viaggio e mi dico: vedi che hai ancora tante capacità? Che sei in grado di fare anche questo? Insomma, è una sfida continua con me stessa, per potermi dire “brava”, ma anche per imparare ad accettare tutto degli altri, differenze e diversità».
Il libro ha deciso di scriverlo 2 anni fa, mentre era in Thailandia con Andrea. «Ho buttato giù le prime 50 pagine, le più dure, quelle dell’incidente, con le lacrime che mi rigavano le guance» ha rivelato in una diretta Instagram. L’idea però le era venuta quando studiava all’università. «Mi ero appassionata a un corso di Psicologia dell’emergenza, perché mi interessava capire le conseguenze di traumi, incidenti, catastrofi. Mi aveva colpito la storia di Natascha Kampusch, sequestrata a 10 anni e tenuta segregata per 8 da un uomo. Nonostante le mille richieste di giornalisti, aveva deciso di voler raccontare lei stessa la sua storia, perché era la sua possibilità di ricominciare a vivere. Lo stesso è successo a me: volevo essere io a dare la mia versione di ciò che mi è accaduto. Volevo mettere ordine. Ho pensato: se lo faccio, lo faccio per me, per togliermi questo grande peso, chiudere un capitolo e dire: basta, oramai l’ho raccontata, non la tocco più». Perché, scrive, «non si sa mai come parlare di un incidente. Come si fa a raccontare nel modo giusto una cosa tanto brutta?».
Nella seconda vita di Giulia, quella iniziata 10 anni fa, c’è l’amore. Andrea l’ha incontrato durante i 9 mesi in ospedale: era un tirocinante fisioterapista. Ci sono stati i primi approcci, gli appuntamenti, la paura di non sentirsi adeguata. «Tutte le ragazze negli anni a venire le ho sempre trovate più belle, magre, alte… più in piedi di me» scrive Giulia. Il primo appuntamento è stato a marzo 2012: due biglietti per vedere una gara di motocross freestyle e poi una cena a base di kebab e Coca-Cola: «È stata la cena più importante della mia vita». Nel 2016 si sono sposati e adesso arriva Sophie, che viaggerà con loro intorno al mondo, «Covid e vaccinazioni della bimba permettendo». Una famiglia un po’ «anomala», dice lei, dove probabilmente sarà lui a spingere il passeggino. «Onestamente non sarei dove sono oggi senza Andrea. Non avrei fatto tutto quello che ho fatto, non mi sarei messa così tanto in gioco. Lui è quello che ha più creduto in me, che mi ha aiutato a trovare una mia nuova “normalità”. Dopo l’incidente all’inizio ero stata tanto sola, poi è arrivato lui e tutto è diventato un “noi”». Andrea è solido e razionale. «La prima proposta di viaggio me l’ha fatta lui, siamo partiti per l’Australia, dopo sono sempre stata io a dire: andiamo un po’ più in là».
Col tempo Giulia ha imparato un nuovo modo di “sentire” il proprio corpo. «I primi tempi dopo l’incidente mi vergognavo, vedevo difetti anche dove non c’erano. Ora vivo tutto come un cambiamento, come un reimparare a gesticolare e a usare le mie gambe: spesso le accavallo. Poi i social mi hanno aiutato a capire come muovermi. E io un po’ per gioco, un po’ per studio mi sono messa lì e ho scoperto per esempio che la gonna coi volant crea una illusione ottica dove sembra quasi che in quel momento stia muovendo le gambe. Mi aiuta a sentirmi più a mio agio».
Una frase del libro sintetizza il suo punto di vista: «Quando capisci quello che non puoi fare, capisci anche tutto quello che invece puoi ancora fare». È il pensiero, mi spiega, che ti aiuta ad andare oltre i tuoi limiti. «Se inizi tu a credere di non essere in grado, non ne esci più». Così Giulia ogni volta che si è trovata davanti a un ostacolo o a un problema ha cercato la soluzione, non si è fatta fermare. E ha sempre dimostrato una grande capacità di adattamento. «Di sicuro questa qualità già l’avevo, ma in carrozzina è come se l’avessi allenata. Oggi ho una mentalità elastica che sa prendere decisioni. Sono quella che va in Norvegia all’ottavo mese di gravidanza, però sono anche disposta a prendere un volo il giorno dopo se qualcosa va storto». E da quando la sua vita è cambiata ha capito che «quella libertà che sembra esserci data di diritto, la libertà di andare dove vogliamo e di essere ciò che vogliamo, non è assolutamente scontata, non sarà un tatuaggio con la scritta “freedom” a garantircela». Perché va coltivata con le nostre scelte, come ha fatto Giulia.
LA STORIA DI GIULIA IN UN LIBRO
Prometto che ti darò il mondo (De Agostini) è, dice Giulia Lamarca,
«il frutto di questo periodo della mia vita. È un libro nato dall’esigenza di mettere un po’ di ordine in quello che mi è accaduto e di trasmettere tante cose alla gente». Racconta gli ultimi 10 anni: dall’incidente che l’ha costretta in carrozzina a oggi che aspetta una bambina.