Venerdì 4 febbraio, la notizia del rapimento di Giuliana Sgrena a Baghdad. I giorni successivi passano fra il silenzio dei rapitori, le false rivendicazioni sul web e le mobilitazioni in Italia. Il quotidiano per il quale lavora Giuliana Sgrena, Il Manifesto, inizia una serrata campagna di informazione per far conoscere ai rapitori chi è Giuliana: una donna di pace, che si è battuta contro questa guerra e ne ha denunciato, fin dall’inizio, le ingiustizie e le atrocità. Dopo un mese di attività di intelligence e di trattative, e dopo il drammatico appello in video, arriva finalmente la notizia della liberazione.
L’esultanza però cede subito il posto all’angoscia. Passa poco più di un’ora dalla notizia del rilascio, e le agenzie battono un nuovo comunicato. “L’auto che stava conducendo la giornalista all’aeroporto di Baghdad è stata colpita dal fuoco ‘amico’“. Colpi sparati dalle truppe americane che feriscono Giuliana e un agente dei servizi. E che tolgono la vita a Nicola Calipari, l’agente del Sismi che si era occupato della trattativa con i rapitori e che aveva ottenuto il rilascio della giornalista.
All’orrore per una vicenda che appare tragica e grottesca insieme, si aggiungono le polemiche e le ipotesi. Potevano gli americani non sapere che in quell’auto c’erano degli italiani? E’ credibile che si verifichino errori di questo genere? Oppure c’è dell’altro? L’opinione pubblica si divide fra chi crede all’incidente e chi grida al complotto. Poi, il 6 marzo, arrivano le parole di Giuliana. E la sua verità. Raccontata in un articolo pubblicato sul Manifesto, e diffuso dall’Ansa in questa sintesi:
”Sto ancora nel buio. È stata quella di venerdì la giornata piuù drammatica della mia vita”. Comincia con queste parole un’articolo di Giuliana Sgrena in prima pagina sul Manifesto. ”Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata – scrive la giornalista -. Avevo parlato poco con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberata. (…) A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella mia stanza come a confortarmi e a scherzare: “Complimenti – mi hanno detto – stai partendo per Roma“. Per Roma, hanno detto proprio cosiì. (…) Mi sono cambiata d’abito. Loro sono tornati: “Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire“. Era la conferma che non avrei voluto sentire. È il momento piu’ felice e insieme il più pericoloso.
Se incontravano qualcuno, vale a dire i soldati americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. (…) La macchina camminava sicura in una zona di pantani. (…) Un elicottero sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. (…) Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. (…) Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: “Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla, sei libera“.
Mi ha fatto togliere la benda di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo “Nicola”. Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute”.(…) ”La macchina – scrive sempre Sgrena – continuava la sua strada attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere. (…) Nicola Calipari si è seduto al mio fianco. L’autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l’aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto …quando …io ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si è abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima. L’autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, “siamo italiani, siamo italiani”.
Nicola Calipari si è buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l’ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. (…) La mia mente è andata subito alla parole che i miei rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, però dovevo stare attenta “perché ci sono gli americani che non vogliono che tu torni“. Allora, quando me l’avevano detto, avevo giudicato quella parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della più amara verità. Il resto non lo posso ancora raccontare. (…)