«Spengo il telefono. Ogni volta che squilla, la mia mente scivola indietro nel tempo: tutto il dolore è ancora lì, presente. Si è insinuato in ogni fibra del mio essere come sabbia in un giorno di libeccio. Lo sento scricchiolare tra i denti, bruciare nei polmoni quando respiro, grattare sotto le palpebre. E il tunnel di tristezza nel quale vivevo mi cattura di nuovo, trascinandomi in un vortice sempre più veloce e soffocante, di cui non riesco a vedere la fine». Comincia così, come un pugno nello stomaco, L’istinto della cura – La mia storia di accudimento e resilienza di Monica Antonacci (Mondadori). Un libro di amore e coraggio. Speciale. Perché è nato dal nostro concorso La tua vita in un libro. Monica ha voluto a dare alla scrittura lo struggimento e l’agonia che l’hanno accompagnata mentre era al capezzale del marito, colpito da un aneurisma cerebrale. E racconta la forza che le è nata dentro e le ha permesso di stargli accanto, nonostante tutto. Sebbene sapesse, razionalmente, che il destino di Giorgio era ormai segnato. Una morte al rallentatore.
«Il cuore non voleva accettarlo»
«Scrivere questo libro, buttare fuori tutto quello che avevo dentro non è stato facile» racconta oggi Monica, commessa 53enne di Fano (PU). «Mi sono resa conto che ancora non avevo fatto i conti con me stessa, non avevo elaborato il lutto. Avevo chiuso il mio dolore dentro un cassetto». Sono passati 10 anni dalla telefonata che le ha cambiato la vita, quel 15 luglio del 2008. Lei e Giorgio si erano appena separati, dopo 25 anni di matrimonio. Non è stato facile a rontare lo tsunami di emozioni contrastanti, le parole dei medici, i corridoi degli ospedali, il rituale prima di entrare nella stanzetta del reparto di rianimazione dove il marito giaceva senza accorgersi del mondo che andava avanti intorno a lui. Eppure Monica ce l’ha fatta: a superare tutto, a ripensare a se stessa. Grazie all’amore e al sostegno di chi le stava accanto, grazie ai figli.
«La scrittura è stata una terapia»
«Il Giorgio che conoscevo io non c’era più. Era ridotto a un “guscio”. E pensare che era terrorizzato dagli ospedali. Saperlo lì è stata una sofferenza continua» ricorda Monica con la voce ancora rotta dalla commozione. «Mettermi davanti al computer è stato come rivivere tutto». Nel romanzo descrive il calvario, ma torna anche indietro nel tempo, a quando lei e Giorgio si erano innamorati – «eravamo due ragazzini» – agli anni passati insieme, alla famiglia che si allargava. «Ho rivisto il film della mia vita. Ci sono stati momenti in cui, mentre scrivevo, scorrevano le lacrime. E allora mi dovevo fermare, far sedimentare il dolore per poter andare avanti». Al centro dei suoi pensieri ci sono sempre stati i figli: Samantha, Margherita ed Edoardo. «Ho sofferto per loro, per quello che hanno dovuto passare. Non mi ero resa conto dell’intensità del loro dolore».
«Ho trovato la forza dentro di me»
«Noi donne siamo straordinarie, capaci di cambiare e a rontare tante cose. Avrei potuto anche lasciarmi andare. Non l’ho fatto. Come potevo abbandonare Giorgio, che aveva bisogno di me?». Così Monica ha scoperto di possedere una forza che non immaginava di avere. L’istinto della cura, che è anche il titolo del romanzo, è «qualcosa che ci porta a comprendere, amare, a voler farci carico del malessere degli altri. Magari è qualcosa di innato che tiriamo fuori quando ci pensiamo meno». Lei la cura l’ha messa nei riguardi di Giorgio, dei figli, dei suoi sentimenti. Li ha coccolati, in cerca di una speranza per 9 lunghissimi mesi. Come un parto che li ha condotti verso una vita diversa. «La mia famiglia è sopravvissuta» dice. «Siamo riusciti a trasformare in forza la fragilità. Abbiamo a rontato un mare in tempesta, ma non siamo andati a fondo».