I ragazzi della Generazione fusion
Prima di incontrarsi sul nostro set, non si erano mai visti. Anche se, guardandoli, sembra impossibile. Chiacchierano senza sosta in un mix di lingue sorprendente, scherzano come fossero amici da una vita, si scambiano consigli sulle spezie (il berberè che Jaclin mette ovunque, anche nel ragù, vorrebbero assaggiarlo tutti), si insegnano come indossare i loro abiti tradizionali: chi il turbante e chi i jigatabi, le scarpe degli operai giapponesi, quelle che separano l’alluce dalle altre dita. Si raccontano le loro preghiere, tutte diverse e tutte bellissime. Parlano ma sanno anche ascoltare, con gli occhi pieni di stupore e la mente aperta, libera da stereotipi, «spalancata» come dice Asiri, mentre si annoda in vita il sarong, una specie di gonna lunga, l’abito da uomo tipico dello Sri Lanka.
Starei ore a guardarli, incantata, perché questi ragazzi rappresentano qualcosa di grande, di speciale. Quello che abbiamo voluto raccontare in queste pagine. Li abbiamo chiamati “Generazione Fusion”, come la cucina che mixa in modo geniale elementi presi da diverse tradizioni, creando un risultato unico, eccezionale. Perché anche loro sono così. Vivono in Italia ma hanno due o più radici, sono cresciuti a cavallo tra due o più mondi, spesso lontanissimi, creandone a loro volta un terzo, nuovo, ricco, accogliente, poliedrico. Proprio come noi speriamo possa essere la società del futuro, dei nostri figli. E gli ultimi dati sembrano darci ragione: secondo l’Istat, nel 2019 su quasi 185.000 matrimoni oltre 24.000 avevano almeno uno sposo straniero.
Generazione fusion: il video
«È già il nostro presente»
«Per fortuna posso dire che non sarà il nostro futuro: è già il nostro presente» spiega Marco Aime, professore di Antropologia culturale all’Università di Genova. «L’umanità si è sempre mescolata, perché l’andare da qualche parte è una caratteristica del genere umano. Quello che sta cambiando, grazie al processo di integrazione che avviene sostanzialmente nelle scuole perché è lì il luogo in cui costruiamo la nostra idea di appartenenza, è che le nuove generazioni hanno una sensibilità maggiore, un orizzonte più ampio».
Per loro è normale fare colazione una mattina con la zuppa di miso, tipica giapponese, e l’altra con pane, burro e marmellata, come succede in casa di Aika e Ali, sorelle italo-giapponesi. È normale festeggiare il Natale la sera del 23 dicembre, come fa Ann Mari perché in Olanda questa è la tradizione. È normale andare una domenica in chiesa e una sera, al tramonto, in moschea, come racconta Jaclin. «Per noi non solo è normale. È qualcosa di più, di diverso» mi spiega, mentre si sistema il turbante e accarezza il braccialetto mala che i musulmani usano per pregare. «Noi non diamo etichette, definizioni. Non facciamo distinzioni. Siamo legati alle nostre radici, certo, ma siamo pronti ad accoglierne altre. Io non mi sento né italiana né etiope, non è importante saperlo. Mi sento libera, cittadina del mondo». A sottolineare questo concetto, che magari ad alcuni di noi può suonare ancora strano, ci pensa Damiano, il suo compagno, italo-congolese: «A me piace pensare che siamo come l’acqua. Che può essere tutto, che cambia spesso forma, colore. Che si adatta, che si muove in continuazione, che avvolge, accoglie, ti fa sentire leggero».
La sensibilità di capire la diversità
E l’accoglienza, intesa come la capacità, la sensibilità di capire la diversità, loro ce l’hanno nel sangue. «Questi ragazzi sono la somma di due o più culture. Portano in loro l’idea stessa della diversità e ce la trasmettono, nel modo più naturale che ci sia. Queste diversità si contagiano l’una con l’altra, dando vita a qualcosa di nuovo, di diverso, di interessante. Perché le culture non sono gabbie ma cantieri sempre al lavoro» spiega Aime.
Ed è questa la loro forza, la loro ricchezza, come racconta Noa che custodisce, nei suoi tratti e nel suo modo di essere, i segreti delle saghe nordiche tanto quanto i riti della religione ebraica. «Adoro mangiare l’hot dog di maiale islandese. In teoria per la fede ebraica non dovrei. Ma io lo faccio. Fa parte della mia altra radice. E le due radici convivono, in armonia, senza prevaricazione» dice, facendomi vedere l’anello a spirale che indossa sempre e che, secondo la tradizione vikinga, viene regalato alla fidanzata prima di sposarla (il suo glielo ha dato la mamma, ndr). E quest’armonia ce la racconta anche Erika, che una volta all’anno torna in Giappone perché vuole conoscerlo meglio: «Ho ricevuto un’educazione giapponese, dovevo essere una brava bambina. Da bambina ne soffrivo, sentivo di essere diversa. Ma ora ne vado fiera. E poi la radice italiana, di mia mamma, ha smussato dolcemente questa mia rigidità».
Una “fusione” perfetta, non sempre facile da raggiungere
Una “fusione” perfetta che, però, non sempre è stata facile da raggiungere, almeno per alcuni di loro. Lo sa bene Ali che, ogni volta che torna dai nonni in Giappone non rinuncia alla pizza e che sul set è arrivata con uno dei suoi kimono preferiti: «Da piccola mi vergognavo del mio nome (che in giapponese vuol dire “io esisto”, ndr). Ero straniera sia qui in Italia sia in Giappone. Poi, crescendo, ho capito che avere due radici mi ha resa libera, come se mi avessero regalato un paio di occhiali speciali per guardare gli altri, il mondo, senza pregiudizi».
Dello stesso parere è Asiri, che studiando Scienze Sociali è riuscito a mettere insieme i pezzi del suo puzzle. «Da bambino dicevo che ero di Milano. Nascondevo, rinnegavo le mie origini, il colore della mia pelle. Mi sentivo come una noce di cocco: marrone fuori, bianco dentro. Adesso invece mi sento sempre come una noce di cocco, ma finalmente marrone anche dentro» dice mentre mi fa vedere il polcatou, un guscio di noce di cocco che a casa usa per servirsi, l’unica posata che utilizza a tavola in realtà, perché poi mangia con le mani, come è normale per la cultura srilankese.
Una diversità che a volte può spaventare
Questa bella diversità a volte può spaventare, come dimostrano gli episodi di intolleranza e razzismo a cui continuiamo ad assistere. «È vero, il diverso di solito fa paura perché non lo conosciamo, perché ce lo immaginiamo distante da com’è veramente, perché siamo restii a sperimentarlo. In realtà, nel mito, lo straniero è stato visto spesso come portatore di novità, di storie. Basti pensare a Ulisse o all’impero romano» conclude l’antropologo Marco Aime. Proprio quelle storie piene di animali fantastici che la mamma e la nonna somale di Kevin gli hanno raccontato fin da bambino per fargli conoscere le tradizioni del loro Paese. «Ho conosciuto la Somalia, in cui non sono ancora stato purtroppo, attraverso le loro parole, i loro abiti, le loro ricette» racconta mentre ci spiega tutti i passaggi per fare il sambusi, una specie di pasta fritta. E Antoine, metà colombiano e metà olandese, che vive sul lago Maggiore, lo ascolta, rapito. «Avere più radici crea connessioni, energia, appartenenza» dice, stringendo in un abbraccio i ragazzi che sono accanto a lui, che sono come lui. E che, come lui, appartengono a questo nuovo, bellissimo mondo.
Di Marta Bonini – foto di Rocco Bizzarri – styling di Valeria Rossi
Ha collaborato Giorgia Poma, fashion stylist assistant.
Make up Pixie. Hairstyle Ana Rodriguez per Green Apple.