«Un solo farmaco capace di sconfiggere tutti i tipi di tumore! L’ho sognato dal giorno della mia laurea» fantastica con un sorriso David Khayat, 49 anni, enfant prodige della medicina francese, oggi docente di Oncologia all’Università Marie Curie di Parigi e brillante scrittore di medical thriller. Khayat è uno che ai sogni non rinuncia, ed è per questo che subito dopo fa una promessa molto concreta: «Entro i prossimi vent’anni vinceremo la battaglia contro il cancro, anche se non grazie a un farmaco unico: le armi saranno terapie create su misura per ogni malato».

Non arrendersi alle sconfitte fa parte del patto silenzioso che l’oncologo più famoso di Francia ha stretto con i suoi pazienti, decine di migliaia di vite che ha curato e che talvolta si è visto sfuggire impotente proprio qui, nell’ospedale Pitié-Salpêtrière dove è primario da quando aveva 33 anni. A loro, in fondo, è dedicato il suo nuovo libro Speranza di domani – Conoscere e combattere il cancro (Codice Edizioni): un affascinante saggio che ci accompagna mano nella mano alla scoperta di un male spietato, capace di riprodursi all’infinito. Ma non incurabile. Non più, almeno.

Professor Khayat, il suo libro comincia con un pugno nello stomaco. Lei dice che oggi un uomo su tre e una donna su quattro muoiono di cancro. E l’Organizzazione mondiale della sanità prevede il raddoppio dei casi entro il 2020: significa 20 milioni di nuovi malati all’anno! Dov’è la speranza?

«Nelle straordinarie scoperte degli ultimi anni. Purtroppo quei dati strazianti riguardano per il 75 per cento i Paesi in via di sviluppo, che messi insieme non raggiungono il 5 per cento della ricchezza mondiale. Lì non esistono prevenzione, diagnosi precoce, terapie».

Ma il cancro è in aumento anche nei Paesi ricchi.

«Sì, ed è un fenomeno in buona parte dovuto all’allungamento della vita media. Ogni giorno il corpo umano fabbrica 70 milioni di nuove cellule. Quelle vecchie si riproducono dividendosi in copie identiche a se stesse, con lo stesso patrimonio genetico. Con il passare del tempo, però, il meccanismo perde colpi e le possibilità di errore crescono. Ecco, il cancro ha origine dal mutamento genetico di una cellula “impazzita”, che a sua volta continua a moltiplicarsi».

Anche le chance di sopravvivenza, però, sono cresciute. Da quando?
«Non c’è una data. Ogni anno abbiamo fatto un passo avanti. Nel 1970 la sopravvivenza media era del 40 per cento, alla fine del 1990 del 57. Ma la percentuale varia a seconda del tipo di tumore e del sesso e dell’età del malato».

Qual è oggi l’arma contro il cancro?
«La chirurgia, ma da sola non basta. Anche dopo avere asportato la massa tumorale con un’operazione, infatti, possono sopravvivere cellule maligne diffuse in altre parti del corpo. Se non vengono eliminate, danno luogo a metastasi quasi sempre mortali».

Per questo motivo la chemioterapia è fondamentale?
«Sì. Purtroppo non sempre funziona. Le faccio un esempio: ho 100 pazienti con tumore al seno e metastasi al fegato e le curo tutte con la stessa terapia. È possibile che 70 migliorino, 20 restino stabili e dieci peggiorino come se non avessi dato loro alcun farmaco».

Perché?

«Questa è la grande domanda. Abbiamo trovato qualche risposta studiando la malattia nei singoli pazienti. Alcuni di noi, per esempio, hanno dei geni che respingono i farmaci senza dargli il tempo di agire. Mentre certi tipi di cancro hanno a loro volta dei geni che resistono a un determinato trattamento».

Che cosa si può fare allora?

«I ricercatori di tutto il mondo stanno mettendo a punto una specie di carta d’identità genetica dei singoli tumori: analizzano le cellule sane e quelle malate di un paziente per capire se i loro geni sono sensibili o resistenti alla chemioterapia. Lo scopo è trovare il farmaco “giusto” per ciascun malato: così la cura diventerà sempre più personalizzata ed efficace. Questa è la speranza di domani, si chiama farmacogenomica: è la strada principale per guarire dal cancro, ma non l’unica».

Quali sono le altre?

«Raggiungere una precisione balistica nel colpire solo le cellule malate. Oggi la maggior parte delle chemioterapie non fa distinzioni, distrugge tutte le cellule che si moltiplicano velocemente: quelle cancerose, quindi, ma anche quelle dei bulbi piliferi, dei globuli sanguigni, della mucosa del tubo digerente. Ecco perché la chemio ha una serie di effetti collaterali: perdita di capelli, crollo delle difese immunitarie, anemia, afte, diarrea. Potremmo evitarli se avessimo un “detector”, un mirino in grado di distinguere una cellula cancerosa in mezzo a quelle sane».

Esiste già questo “detector”?
«Ne sono stati scoperti quattro, che agiscono su altrettante sottospecie di tumori: linfoma, seno, colon retto, polmone. Si chiamano anticorpi monoclonali, perché funzionano come le cellule del sistema immunitario. Solo che, invece di eliminare virus e batteri, attaccano il cancro. Quattro anticorpi possono sembrare pochi, se si pensa che ci sono oltre 200 tipi di tumore. Ma siamo all’inizio».

È l’arma che in futuro ci permetterà di sconfiggere il male?
«Una delle armi. Esistono anche farmaci in grado di bloccare la replicazione delle cellule cancerose o l’afflusso di sangue al tumore, e radioterapie sempre più precise grazie al computer e alla Tac. Ma soprattutto non è detto che il cancro debba essere annientato. Finora la lotta si concludeva o con la morte del paziente o con quella del tumore. Oggi si pensa che i due possano anche convivere. Accade con l’Aids e il diabete. Perché non con il cancro?».