Succedeva anche a me. Ogni volta che mi invitavano in un talk show, guardavo l’agenda sperando di avere un impegno improrogabile che motivasse il “Mi spiace ma non posso” alla mia coscienza. Apparire in tv significava trucco e capelli perfettamente stirati. Ma soprattutto competenza e scioltezza su temi di economia e politica, una volta addirittura il calcio, sui quali non mi sentivo mai all’altezza. Poi ho scoperto che continuavano a invitarmi anche quando ostentavo il mio mosso naturale. E che nessuno mi chiedeva di fare l’economista o la politologa o l’allenatrice di calcio, ma solo il mio lavoro, la giornalista, in cui ero brava. L’istinto di dire no è ancora lì, intatto. Ma io ho imparato a riconoscere la sua natura e a fare posto nell’agenda. A esserci. E a essere grata a chi mi invita non solo per parlare di asili o costume, temi storicamente affidati alle donne, ma di tutto quanto interessi a una società che è composta da uomini e donne in egual percentuale.
Vi racconto questo piccolo conflitto interiore perché mi torna in mente ogni volta che osservo uno dei tanti comitati di emergenza governativi in giacca e cravatta, o ascolto un panel interamente composto da uomini o leggo una prima pagina di quotidiano con firme unicamente maschili.
La grande responsabilità di questa distorsione è sicuramente di chi sceglie, di chi invita. Che non è per forza un uomo. Ma che è abituato ad attribuire un genere all’autorevolezza.
Però c’è una piccola responsabilità che è anche nostra. Ed è quel passo indietro, quella tentazione di dire no ogni qualvolta ci viene chiesto di sporgerci con la nostra competenza in un campo più ampio, o semplicemente nuovo, per il quale non ci sentiamo preparate abbastanza.
In un talk che ho moderato per Valore D, la giovane direttrice del quotidiano La Nazione, Agnese Pini, ha detto: «Per arrivare a sentirci uguali ai maschi occorrono generazioni perché ne abbiamo troppe alle spalle in cui non è stato così. Abbiamo interiorizzato una condizione di inferiorità che va al di là di ciò che siamo riuscite a ottenere, della posizione professionale raggiunta».
Quando ho chiesto a un’altra ospite di quel talk come avesse fatto a bruciare le tappe in questo percorso di consapevolezza, mi ha risposto che il segreto è nell’autostima. Quella donna è Amalia Ercoli Finzi, che ha mandato la sonda Rosetta nello spazio, e che l’autostima se l’è costruita da sola. Nata nel 1937 in una famiglia dove anche il cane e il gatto valevano più di lei, si è detta fin da bambina di essere brava. Ha imparato a osservarsi con oggettività rispetto al mondo circostante e a riconoscere le sue capacità. Un caso straordinario, certo. Non possiamo essere tutti così. E allora quando è divenuta madre (per 5 volte), Amalia Ercoli Finzi ha capito che l’autostima dei suoi figli andava coltivata: «Ciascuno di noi ha un suo ambito di eccellenza, maschi e femmine. Bisogna saperlo trovare e valorizzarlo. Solo così, la stima per se stessi sale».