Si davano appuntamento in vari punti del centro di Piacenza, comune emiliano al confine con la Lombardia. Non per un gelato né per qualche chiacchiera in compagnia, ma per picchiarsi, per inscenare scazzottate degne del film Fight Club del 1999. A distanza di quasi vent’anni dalla pellicola di David Fincher, però, è tutto vero ed è accaduto non tanto (o solo) per noia, quanto per qualche “like” in più. Le risse sono state infatti organizzate, pianificate a tavolino, con tanto di appuntamenti, naturalmente via social.

Protagonisti una sessantina di ragazzi piacentini, di età compresa tra i 13 e i 17 anni. A organizzare le lotte è stato un coetaneo che, una volta smascherato insieme agli altri partecipanti grazie all’intervento delle forze dell’ordine, si è giustificato, spiegando: «Da quando ho cominciato a organizzare gli incontri, ho guadagnato 400 followers su Instagram».

Ma fin dove si può arrivare in nome di qualche “like” in più? Da dove nasce questo fenomeno, che non è neppure l’unico del genere?

Le risse alla Fight Club

Gli incontri a suon di calci e pugni nel centro di Piacenza sono stati scoperti dalle forze dell’ordine dopo che era stato notato che le risse non erano casuali né estemporanee, bensì pianificate. Dopo tre settimane consecutive di scazzottate tra adolescenti, è scattato il blitz di carabinieri e polizia, che hanno fermato 63 giovani in una volta sola e ne hanno identificati 6. Tra loro anche il 15enne che ha spiegato il motivo del Fight Club in chiave nostrana. «Se due volevano menarsi, dicevo loro di farlo in pubblico, stabilivo giorno e ora, e spargevo la voce. Così sono diventato popolare sui social» ha detto l’organizzatore, di origini bosniache, con il sogno forse di diventare influencer.

Il ragazzo ha poi aggiunto che solo i primi incontri sono stati spontanei. Col passare del tempo, di fronte al numero di followers e di consensi in crescita sui social, ecco che il 15enne ha pensato di sfruttare questo sistema per accrescere la propria popolarità. Ora le risse sono state interrotte, almeno temporaneamente, ma è altamente probabile che il fenomeno si verifichi di nuovo, magari semplicemente cambiando location. O che assuma altre forme, come è stato per la Blackout challenge.

«Si tratta di un fenomeno che si può facilmente collegare ad atteggiamenti tipici degli adolescenti in qualunque epoca e tramite qualunque mezzo: hanno voglia di condividere la socialità con il gruppo dei pari e per questo sono disposti a tutto, anche a comportamenti negativi. Il problema è che le tecnologie digitali amplificano tutto e fanno emergere problematicità preesitenti. Spesso i ragazzi coinvolti in queste mode hanno un vuoto interiore: pur di sentirsi vivi e di avere il consenso dei compagni o la visibilità, sono pronti anche alla violenza, senza rendersi conto di ciò che fanno» spiega a Donna Moderna Assunta Amendola, docente di informatica e matematica nei licei, psicologa dell’età evolutiva e autrice del libro Adolescenti nella rete (Ed. L’Asino d’oro) insieme a Beniamino Gigli e Alessandra Maria Monti.


Cosa non si fa per un “like”

La voglia di apparire sembra la vera spinta nel compiere gesti estremi. Lo è nel caso delle risse organizzate appositamente per conquistare like sui social, dunque popolarità. Ma lo è anche un altro fenomeno, come quello che vede protagonisti ancora una volta ragazzi in cerca di popolarità sui social e disposti a pagare pur di ottenerla. Come spiegato in occasione di una ricerca commissionata dalla Presidenza del consiglio comunale insieme al Miur a Verona (Noi, persone della società complessa), diversi teenagers si sono detti pronti a sborsare anche 20 euro alla volta pur di farsi un selfie con la ragazza più popolare sui social.

D’altra parte la moda dei selfie a tutti i costi, compresi quelli estremi, sembra aumentare. Basti pensare ai casi di Milano dove tra agosto e settembre diversi ragazzi si sono spinti fin sui tetti dello stadio San Siro e di un centro commerciale, pur di immortalare la loro prodezza e postarla sui social. In un caso, però, un adolescente ha perso la vita nel tentativo di fuggire agli agenti della vigilanza che lo avevano scoperto.  

«Non sono fenomeni normali: si manifestano quando un ragazzo arriva all’adolescenza con vuoti e lacune nella crescita della realtà affettiva. Quando si arriva a certe forme di violenza, aggressività, pericolo per sé e gli altri, cyberbullismo o sexting, a volte si rasenta la patologia. Bambini e adolescenti hanno bisogno di coltivare la propria realtà interiore, che significa vivere relazioni affettive valide fin dalla nascita. Purtroppo, invece, la nostra società non privilegia gli aspetti umani e spesso la tecnologia, che di per sé non ha colpe, viene usata come sostituto dei rapporti, lasciando spazio all’anaffettività» spiega l’esperta.

Cosa fare? Come riconoscere il fenomeno?

Maggiori controllo possono aiutare a prevenire? Occorre più repressione? E che ruolo ha la scuola? «Vietare o limitare in modo eccessivo non serve: è importante, invece, cercare di dare a un ragazzo ciò di cui hanno bisogno davvero. Spesso si dice che i giovani hanno già tutto: in realtà è vero il contrario, quello che serve davvero è una crescita sana come esseri umani. Magari li si elogia per i risultati scolastici e la società tende a premiare l’efficienza, ma bisognerebbe preoccuparsi piuttosto di osservarli, seguirli, essere loro vicini e non controllarli o – peggio ancora – far finta di nulla, ripagandoli con oggetti materiali» dice l’autrice.

Dalla voglia di “like” all’aggressività

Se in molti cercano di trasferire la propria vita dalla strada ai social, a volte accade il fenomeno opposto: è dalla rete e dai videogiochi che che si mutuano atteggiamenti e comportamenti, salvo poi ripostarli nuovamente nel grande mare del web. È quanto accade con Fortnite, il popolarissimo videogame che spopola ormai dal 2017 e ha conquistato giovani e meno giovani ovunque nel mondo.

Secondo molti esperti, però, è veicolo di un’eccessiva aggressività e violenza. Nonostante anche personaggi famosi – soprattutto calciatori – ne abbiano emulato alcuni gesti anche in campo, non mancano le preoccupazioni. Persino il principe Harry di recente ha ammonito alcuni studenti in un istituto scolastico in cui era andato in visita, esortandoli ad abbandonare Fortnite, videogiochi e rete, per dedicarsi alla vita reale.

«Il problema è che in un ragazzo è normale il desiderio di provare nuove esperienze, anche eccessive o sbagliate; può capitare che giochi tutto il giorno con un videogame da solo o con amici. Se però lo fa un adulto, è preoccupante» spiega Assunta Amendola.

A ciò si aggiunge il problema della violenza: «Viviamo in una società caratterizzata da sopraffazione e violenza, mentre dimentichiamo che le qualità umane positive devono essere allenate nel vissuto, nei rapporti, non si può pensare a insegnare l’empatia. Occorrono esempi concreti e ambienti che lo promuovano. I comportamenti eccessivi e violenti sono frutto di un intreccio tra la cultura e un percorso relazione e affettivo che un ragazzo ha vissuto fin da bambino, magari segnato da carenze familiari» spiega l’insegnante e psicologa.

E gli adulti? Caffè in cambio di “like”

Il fenomeno della ricerca di consenso sembrerebbe fuori controllo, come dimostra una tendenza che riguarda anche gli adulti: il moltiplicarsi di locali come un bar di Rapallo, in Liguria, dove il titolare ha deciso di offrire sconti su caffè e brioches ai clienti che postano gli scatti (o i selfie) delle consumazioni sui social. Quanti più “like” questi ottengono, tanto maggiore sarà l’offerta al bancone. «Spesso ce la prendiamo coi social e i media digitali, ma certa pubblicità c’è sempre stata. Semplicemente, il fenomeno è ancora una volta ingigantito: in questo caso alla base non ci sono né violenza né rapporti tra pari, ma solo l’idea di manipolare le persone per interessi economici» spiega Assunta Amendola.